«La bellezza in Italia vale più di 74 milioni di euro, occupando un milione e 370mila persone: un valore aggiunto ai prodotti made in Italy che può e deve essere incrementato per far ripartire economicamente il Paese»: riassume così Giulio De Rita, il ricercatore Censis che l’ha curata, l’indagine “Il valore economico della bellezza in Italia: una situazione paradossale”, presentata oggi a Roma nella sede del Censis di piazza di Novella.
La ricerca, promossa dal portale Lavocedellabellezza.it, inaugurato nel corso della presentazione, e dalla Fondazione Marilena Ferrari, in collaborazione con il Censis, ha voluto fare luce sul profondo legame che intercorre tra bellezza ed economia, cercando di far emergere quanto il bello incida sul Pil del nostro Paese, specialmente nell’attuale situazione di crisi.
L’offensiva di Francia e Germania. I risultati dello studio, che hanno preso in esame il lasso di tempo compreso tra il 2001 e il 2010, parlano chiaro: un valore economico, quello implicito al bello, che nel 2010 si è attestato sui 74 milioni e 207mila euro e che nel giro di una decade ha perso ben 7 milioni e 800mila euro. Se infatti le eccellenze italiane della moda e del design si confermano leader mondiali nei loro campi produttivi, le cose vanno assai meno bene per quanto riguarda i nostri settori manifatturieri. Negli ultimi 10 anni il made in Italy, a fronte di una staticità dell’alimentare e delle bevande, ha perso parecchie quote nei mercati mondiali ad alto valore aggiunto di bellezza: nell’abbigliamento si riscontra infatti un –1,5%, nei prodotti tessili un –2,2%, nel vetro e nella ceramica un –3,8%, nelle calzature un –4%, nella gioielleria un –4,5% e nei mobili quasi un –6%. Settori che in alcuni casi ci hanno visto cedere produzioni, oltre che a paesi emergenti del calibro di India e Cina, addirittura a Francia (calzature +0,8%) e Germania (abbigliamento +1,4%, vetro e ceramica +4%): «Perché – si domanda allora Giulio De Rita – i tedeschi col pedalino bianco guadagnano posti nell’abbigliamento mentre noi ne perdiamo? Forse perché abbiamo relegato la bellezza nel puro campo artistico disgiungendola dalla funzionalità dei prodotti manifatturieri? Non dobbiamo credere che la bellezza, in Italia, sia solo un bel quadro da appendere in soggiorno, tutt’altro: essa rappresenta il nostro stesso dna, la nostra identità. Credere che gli investitori internazionali diano più peso alle politiche economiche, alla spending review che taglia posti letto, auto-blu e provincie, invece che ai dati di questa nostra ricerca, è completamente errato. Bisogna ripartire dall’alta moda, che non ha perso nessuna quota di mercato, e far sì che il suo atteggiamento positivo, caratterizzato dalla passione per il bello, impregni a cascata tutti i campi industriali e artigianali attualmente in difficoltà».
La concorrenza cinese e le risposte che mancano. Se dunque perdere terreno nei confronti delle altre nazioni europee è per De Rita del tutto inaccettabile, per Giovanni Puglisi, presidente della Commissione nazionale italiana per l’Unesco, le sconfitte attualmente inferte dalla paccottiglia cinese ai prodotti nostrani sono premonitrici di disfatte future ancora più pesanti: «i cinesi hanno qualcosa che noi italiani stiamo sempre più perdendo, ossia l’intelligenza dell’umiltà. Dieci anni fa infatti, dopo aver ammesso di non essere alla stessa nostra altezza nel restauro di tessuti, tappeti e arazzi, Pechino ha mandato a Prato propri apprendisti pronti a imparare tecniche all’avanguardia. E’ quindi più che normale che in quel settore oggi essi siano diventati bravissimi: infatti, proprio attraverso la tanto vituperata riproduzione di oggetti made in Italy, tipica della loro economia, essi prima o poi diverranno maestri, iniziando a produrre opere autentiche, informate da una cultura artistico-estetica, risalente alla Cina degli imperi, che in fatto di raffinatezza ha poco da invidiare alla nostra. Come scongiurare dunque questo pericolo? La risposta è evidente: dando priorità politica alla cultura, impegno sempre disatteso dai governi degli ultimi cinquant’anni. Basti pensare – ricorda Puglisi – a buona parte dei siti archeologici siciliani e in particolare alla Venere di Morgantina: pochissimi visitatori, 50mila l’anno, che dopo aver dato prova di grande eroismo raggiungendola utilizzando strade e infrastrutture carenti, sono costretti ad ammirarla all’interno di una sala di pochi metri quadrati che assolutamente non le rende giustizia».
Il bello italiano tra tradizione e innovazione. Un impegno politico da potenziare, dunque, che per Fabio Lazzari, della Fondazione Marilena Ferrari, va integrato con la formazione dei giovani italiani, che devono tornare ad affollare le nostre aziende riappropriandosi dei saperi della tradizione lavorativa del Paese, colpevolmente sempre più patrimonio dei nostri concorrenti cinesi: «La bellezza del Rinascimento ci permea anche oggi: tutto quello che dobbiamo fare è ricondurre le generazioni più giovani, gli artigiani del futuro, ad accorgersene, ad avere uno sguardo nuovo, penetrante, che riconosca nelle nostre tradizioni produttive un modello ancora oggi vincente perché di qualità superiore».
Esempi di questo paradigma distintivo sono stati presentati dal professor Cesare Protettì, direttore della Scuola di formazione al giornalismo dell’università Lumsa di Roma. Storie a carattere locale, fatte emergere dai praticanti del Master, dove il binomio bello-economia rappresenta l’emblema di un’Italia rispettosa del passato, ancora piena di sensibilità e inventiva. Uno di questi racconti è ad esempio quello che ha come protagonista la famiglia Talarico, «la quale – ricorda Protettì – ha saputo dare una risposta concreta agli ombrelli dozzinali venduti per strada dai cinesi. Si tratta infatti di un’azienda napoletana a conduzione familiare dal 1860 specializzata nei parapioggia fatti a mano. Oggetti ricercatissimi proprio per la loro bellezza, dovuta all’utilizzo di materiali di valore, come Swarovski o tessuti pregiati dipinti a mano».
Fabio Grazzini