Fortunato Zinni c’era, alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana, a Milano, il 12 dicembre 1969. Nato nel 1940, dal 1962 lavorava lì. C’era, e si salvò per caso: fu chiamato fuori dal salone dove esplose la bomba per firmare un documento, e proprio in quel momento avvenne la strage. Una volta uscito dall’edificio, tornò subito dentro per soccorrere le vittime – molte delle quali le conosceva di persona. La sua, quindi, è una preziosa testimonianza oculare.
Che sensazioni c’erano quei giorni? Ci si aspettava un attacco del genere?
«Il 19 novembre avevo aderito allo sciopero di Cgil, Cisl e Uil a Milano, e uscendo dal comizio del Teatro Lirico mi ero imbattuto nel corteo dei comunisti. Ero convinto che le Forze dell’Ordine fossero lì per controllare una manifestazione pacifica, ma poi iniziò lo scontro fra agenti e manifestanti. Eravamo a Via Larga, dove la situazione degenerò e morì il poliziotto Antonio Annaruma. Durante i suoi funerali ci furono saluti romani, applausi alla Polizia, cortei di estrema destra. Cose che non c’entravano nulla: si stavano solo celebrando le esequie di un servitore dello Stato, una povera vittima senza colori né vessilli. Sono stato testimone anche di quest’evento, quindi, che avvenne poche settimane prima della Strage di Piazza Fontana».
Infatti. Poi è arrivato il 12 dicembre, che ricordi ha di quella giornata?
«Ero assunto nella Banca Nazionale dell’Agricoltura, e quel giorno ero lì per lavorare, come sempre. Da allora ho accumulato tanta rabbia. Era un venerdì pre-natalizio, a Milano piovigginava e c’era la nebbia. Nel pomeriggio tutte le banche facevano un’ora di sportello, che terminava alle 16. Noi però avevamo un’autorizzazione speciale: restavamo aperti fino alle 20-21, perché ospitavamo il mercato degli agricoltori. Io, dopo le 16, sono uscito dal mio sportello e sono andato in mezzo al salone della banca, dove gli agricoltori facevano trattative. Io ero il loro garante, “scioglievo” le strette di mano. A un certo punto vengo chiamato da un’altra parte dell’edificio, per firmare un documento del giorno prima. Per leggerlo mi appoggio con le spalle sulla vetrata che dava proprio sul salone: in quel momento sento un grande boato, e poi il buio».
L’esplosione.
«Mi ritrovo sdraiato per terra, ma senza nessun graffio. E insieme agli altri cerco di uscire prima possibile. Intorno a me i telefoni suonano all’impazzata. Rispondo: è la Questura, che mi domanda cosa sia successo avendo sentito l’allarme. Nego l’esplosione di una caldaia. Allora mi chiedono di descrivere cosa vedo intorno. E io: ‘Nulla’. Poi guardo meglio: ‘Un braccio. Qui vicino al telefono c’è il braccio di un uomo’. E allora realizzo, in un attimo, l’assurdità della scena. Quindi esco dall’edificio coi colleghi, ma rientro nel salone. Dove incontro un agricoltore che in ginocchio mi chiede di aiutarlo: era un lago di sangue. Intorno la stanza era devastata: c’erano principi d’incendio, macerie, cadaveri. Un anziano agricoltore che conoscevo era agonizzante, mi chinai ad aiutarlo».
Lei era l’unico dei suoi colleghi al centro del salone?
«Sì, gli altri erano dietro ai banconi. Per questo il Direttore della banca, quando scese dai piani superiori, urlò il mio nome, corse da me e mi abbracciò. Io tremavo, piangemmo insieme. Gli dicevo: ‘Direttore, è stata una bomba!’. E lui: ‘Come fai a saperlo?’. Ne riconoscevo l’odore, che avevo conosciuto durante la Seconda guerra mondiale. Lui mi disse di fare l’elenco delle vittime, perché era gente con cui lavoravo sempre: sarei potuto risalire facilmente ai loro nomi, ma non fu così. A stento ne riconobbi otto, o forse nove. Degli altri dovetti recuperare i documenti dalle tasche, erano irriconoscibili».
Poi cos’è successo?
«Il giorno dopo era sabato, restammo in banca a sistemare il salone per poter riprendere a lavorare già da lunedì. La decisione ci sorprese tutti: non dovevano esserci delle indagini? Ma la Procura ci avvisò che i colpevoli erano già stati fermati, e che si trattava degli anarchici. E si sbagliavano. Da lì partirà un iter infinito di, mi sembra, quasi mille udienze in 36 anni. L’esito finale grida ancora vendetta, perché non ha potuto condannare nessuno nonostante abbia fatto chiarezza sui nomi dei mandanti e degli esecutori».