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Giuseppe Fava e Ilaria Alpi: non eroi, ma semplici giornalisti in cerca di verità

di Alessandro Testa03 Maggio 2014
03 Maggio 2014

Giuseppe FavaCosa vuol dire essere giornalisti, oggi? Cosa voleva dire esserlo nel 1984 oppure nel 1994? Non ci sono grandi differenze: un buon giornalista è presente là dove avvengono i fatti e li racconta così come sono, senza compromessi di comodo e senza girarsi dall’altra parte. Non per eroismo, ma semplicemente perché questo è ciò che fanno i giornalisti in tutto il mondo. Questo faceva Giuseppe ‘Pippo’ Fava nei primi anni ’80 a Catania, denunciando l’intreccio tra mafia, politica ed economia. E questo facevano Ilaria Alpi e Miran Hrovatin in Somalia dieci anni più tardi, indagando sui traffici di armi e rifiuti tossici legati alla cooperazione italiana.

Una scuola di vita. L’eredità dei tre giornalisti assassinati è stata analizzata al Festival del giornalismo di Perugia. A ricordare la sua gioventù insieme a Pippo Fava è stato Antonio Roccuzzo, oggi al Tg di La7. «Eravamo molto entusiasti, tanto da aver lavorato gratis per quattro anni, perché credevamo in quello che facevamo. Non era difficile avere notizie inedite ogni mese perché nessun altro voleva pubblicarle, ma non potevamo permetterci uno stipendio perché avevamo un unico inserzionista: un imprenditore illuminato che non aveva paura della mafia. Molti di noi poi non sono diventati giornalisti, ma quello che hanno imparato insieme a Giuseppe – la passione, la ricerca della verità – lo hanno portato con sé ovunque. L’eredità di Fava è stata raccolta da un gruppo di giovani studenti che, riprendendo lo storico titolo, hanno fondato I Siciliani Giovani. «Abbiamo sfruttato la Rete per creare un network – ha raccontato Valeria Grimaldi, studentessa fuorisede a Bologna – Viviamo in diverse città, in Sicilia come al nord, e andiamo in cerca di storie tralasciate dalle grandi testate: il Muos a Niscemi o Tele Jato, la tv antimafia di Partinico, che abbiamo aiutato a non chiudere, ma anche noi lavoriamo gratis, perché crediamo nell’importanza di ciò che facciamo».

La strada di Ilaria e Miran. Se Pippo Fava e i suoi amici avevano scelto consapevolmente di combattere la mafia a viso aperto senza paura, Ilaria Alpi e Miran Hrovatin non si sono tirati indietro di fronte ad un’inchiesta che hanno visto crescere giorno dopo giorno fino a raggiungere santuari che non andavano violati: due ore prima di essere uccisa, infatti, Ilaria aveva telefonato a Roma, annunciando un servizio scottante per l’edizione serale del Tg3. Un servizio che nessuno vedrà mai, dato che dopo la sua morte le sue videocassette ed i suoi appunti sono scomparsi. Ma quel furto non ha fermato la lunga ricerca della verità, portata avanti caparbiamente dal Tg3, dalla fondazione che porta il suo nome e da pochi altri. Nel 2004 il ritrovamento sulle spiagge somale di fusti carichi di rifiuti tossici dopo il grande tsunami nell’Oceano Indiano ha aperto la strada a quella che sembra essere la pista giusta: un traffico di armi dall’Italia ai signori della guerra come pagamento per l’interramento di rifiuti tossici nelle cave utilizzate per la costruzione – finanziata dalla cooperazione italiana ai tempi dei governi Craxi, De Mita e Andreotti – della strada tra Garoe e Bosaso, dove Ilaria realizzò la sua ultima intervista al fratello del “sultano” locale.

La ricerca della verità continua. «A partire dal 2005 – ha raccontato Francesco Cavalli – la fondazione Ilaria Alpi ha promosso diversi viaggi in Somalia, senza però riuscire a convincere l’unica commissione parlamentare di inchiesta sull’omicidio, quella presieduta da Carlo Taormina, che ebbe la sfacciataggine di considerare il faccendiere Giancarlo Marocchino non come la traccia principale da seguire, ma come un prezioso consulente, tentando di mettere “una pietra tombale” sulla “vacanza finita male” di Ilaria e Miran. Il suo operato fu talmente inqualificabile che nello stesso periodo Marocchino veniva fatto pedinare da Paolo Russo, anche lui di Forza Italia, che allora presiedeva la commissione Ambiente della Camera e conduceva un’inchiesta parallela sul traffico di rifiuti».
In uno di questi viaggi ha indagato (e verificato il racconto dei testimoni somali mediante lo stesso sofisticato strumento utilizzato dalla Digos nella “terra dei fuochi”) Andrea Palladino: «L’iniziativa della presidente Laura Boldrini a favore della decretazione è meritoria – ha detto – ma vorrei ricordare che nasce da una petizione online firmata da 70mila persone in cinque giorni. Adesso ci aspettiamo che si svuotino gli archivi, soprattutto i meno conosciuti, come quelli della commissione Taormina, del ministero degli Esteri o degli ex servizi di sicurezza interni alle tre Forze Armate (oggi accorpati sotto Palazzo Chigi): non troveremo certo la “pistola fumante”, ma forse – seguendo lo stesso metodo investigativo del buon giornalismo – sarà possibile ricostruire più chiaramente il contesto in cui maturò l’omicidio di Ilaria e Miran e quel “deficit di legalità e di verità” che non ha riguardato solo gli anni ’60 e ’70 (riguardo ai quali una verità storica si sta comunque consolidando) ma anche gli anni ’80 e ‘90».
«L’impegno indefesso per la ricerca della verità – ha concluso Annalisa Camilli, di Internazionale, è un dovere morale verso le loro famiglie, ma è anche l’ultimo lascito professionale di questi due nostri coraggiosi colleghi alle nuove generazioni».

Di Alessandro Tes

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