Nuove accuse per l’attivista Joshua Wong, già arrestato e condannato a tredici mesi e mezzo di reclusione. Detenuto nel penitenziario di Shek Pik a causa del suo ruolo di spicco nelle proteste per le riforme democratiche che hanno infiammato la città di Hong Kong nel 2019, Wong è ora accusato anche di “sovversione”. Da tempo il ventiquattrenne è coinvolto nei movimenti pro democrazia che si oppongono alla “normalizzazione” imposta dal governo cinese nei confronti di Hong Kong, ex colonia britannica e territorio teoricamente autonomo.
Il governo cinese ha dichiarato che gli Usa pagheranno “un prezzo pesante” per le interferenze avvenute durante le retate contro i manifestanti. Il segretario di Stato Mike Pompeo aveva paventato delle possibili sanzioni per coloro che avessero partecipato alle brutalità. Immediata la replica dalla Cina: la portavoce del ministro degli esteri Hua Chunying ha esortato “l’immediata fine delle interferenze”, assicurando che “saranno prese tutte le misure necessarie a tutela della sovranità e della sicurezza” di Pechino.
“Uno stato, due sistemi” è la formula con cui si è risolta la disputa internazionale quando, nel 1979, il Regno Unito restituì alla Repubblica Popolare Cinese il territorio di Hong Kong. La città tornava a far parte dello stato cinese, mantenendo però una sua autonomia politica e economica, per cinquant’anni. Il processo di “normalizzazione” cinese ha portato però a una repentina soppressione delle istituzioni democratiche, imponendo di fatto la sua legge in maniera sempre più forte nel territorio autonomo.
Le proteste, iniziate nel 2019 da giovani attivisti come Wong, il più conosciuto tra loro, hanno scatenato una violenta repressione che ha portato all’incarcerazione di parecchi esponenti del movimento. Con la condanna odierna si conclude un lungo ciclo di proteste per i diritti civili e forse il sogno democratico dei giovani attivisti.