Donald Trump ha firmato alla Casa Bianca il Section 301 action, un memorandum che ha come obiettivo tariffe ed altre sanzioni per un valore annuo di almeno 60 miliardi di dollari contro la Cina, accusata di rubare agli Usa segreti tecnologici e commerciali, privando le società americane di ricavi per miliardi di dollari e cancellando migliaia di posti di lavoro. Le misure colpiranno l’import cinese in circa cento categorie commerciali e imporranno restrizioni agli investimenti cinesi negli Usa. Trump ha detto di aver un “rispetto enorme” per il presidente cinese Xi e che vede Pechino come “un amico”, ma che il deficit commerciale americano con la Cina è “troppo alto”.
Tuttavia il governo cinese promette di prendere “tutte le misure necessarie per difendere gli interessi del Paese”: il ministero del Commercio assicura in una nota postata sul sito web che “la Cina non si siederà pigramente a vedere i suoi legittimi interessi danneggiati”.
E’ questa la «guerra dei dazi» che entra in una nuova fase potenzialmente più destabilizzante, con Usa e Cina in prima linea mentre l’Europa, per ora, è fuori dal conflitto. Le misure – che colpiranno merci per un valore stimato di 60 miliardi di dollari con un dazio medio del 25% – prenderanno di mira l’import di circa 1.300 prodotti dalla Cina, dalle calzature all’elettronica, e imporranno restrizioni agli investimenti cinesi negli Usa. Una guerra che già si riflette negativamente sulla Borsa. Wall Street a poco meno di un’ora dalla chiusura sta perdendo il 3%. Le Borse asiatiche hanno reagito chiudendo le sedute odierne con forti cali: Tokyo ha perso il 4,51% mentre Shanghai ha terminato le contrattazioni con un calo del 3,39 per cento. Pesante il bilancio di Shenzhen, seconda piazza della Cina continentale, che ha lasciato sul terreno il 4,49%.
Intanto il governatore della Banca centrale europea (Bce) Mario Draghi – parlando al vertice dei leader Ue – ha segnalato i rischi per l’economia a medio termine, perlopiù esterni: protezionismo nel commercio, deregulation finanziaria, e politiche di bilancio pro-cicliche, specialmente in Usa ma anche in Ue, dove gli Stati membri pianificano di aumentare la spesa.