Quello della direzione di lunedì è l’unico appuntamento cerchiato in rosso sull’agenda PD. Possibili incontri su eventuali alleanze per quel “senso di responsabilità” richiesto da Mattarella, non sono previsti. Ma lunedì il tappo che chiude il Pd all’opposizione di ogni eventualità (senza se e senza ma) potrebbe saltare. Il segretario Renzi ha già consegnato la lettera nelle mani di Matteo Orfini. “Mi dimetto definitivamente”. Definitivamente, quindi dimissioni irrevocabili. Il segretario nazionale del Partito Democratico lascia dopo il 18.8% incassato alle urne, la sconfitta più grave della storia della sinistra italiana del dopoguerra.
Si apre dentro il partito l’ora delle conventicole, delle alleanze dei riposizionamenti e degli incontri carbonari. Martina che lunedì uscirà reggente e traghetterà il PD alla fase congressuale ieri ha visto Walter Veltroni, il primo segretario del Pd, uno dei dirigenti che da tempo lavora al dopo Renzi. Intanto Luca Lotti, renziano di ferro, pallottoliere alla mano fa il conto: il partito della “responsabilità” dentro il Pd avrebbe adesso 115 voti sui 214 componenti della direzione. Così composti: 88 delle minoranze Orlando ed Emiliano più i fedelissimi di Franceschini, 11 del reggente Maurizio Martina e 16 giovanissimi cooptati da Renzi dopo l’ultimo congresso. I Millennials, operazione mediatica impostata dal segretario uscente, furiosi con i vertici. Erano 20 in tutto, nessuno di loro è stato candidato. Si ritrovano ad essere l’ago della bilancia.
La linea del segretario contro il M5s è instabile. Andrea Orlando a Circo Massimo attacca: «Nessuno vuole un dialogo con i 5stelle. Renzi punta solo a coprire la sconfitta». Ha risposto Lotti su Facebook: «Riflettiamo sul Pd, ma non prendiamo lezioni da chi non ha avuto un voto». Il messaggio è una frecciata che non colpisce solo Orlando, ma anche i renziani in fuga, come Serracchiani e padri nobili come Franceschini. Ammonimenti, dardi lanciati dentro il proprio controcampo che sottolineano una sfiducia di Renzi verso tutti, proprio per questo è pronto l’ex premier a mettere in un campo un altro nome: Graziano Delrio, renziano critico, ma dalla primissima ora. Più affidabile di Martina sulla via dell’aventino che aprirebbe all’accordo con i 5stelle. Tra i renziani spunta così l’ipotesi di un’astensione ad un possibile governo di centrodestra, con una figura meno radical di Matteo Salvini per la premiership.
Si fa strada, intanto, l’idea di un leader non scelto da primarie allargate, ma solo dagli iscritti. Un progetto accarezzato da Renzi che disturberà Nicola Zingaretti, appena rieletto presidente della Regione Lazio e candidatosi alla futura leadership del partito con un’intervista a Repubblica. Zingaretti vorrebbe congresso del Pd con tema “l’articolo 3 della Costituzione, l’uguaglianza” che sia “aperto e unitario” dove “io ci sarò, anche alle primarie non escludo nulla”. Ma tutto resta sospeso in attesa di nuovi candidati e soprattutto delle regole, che nessuno conosce ancora. Oltre quella di Zingaretti resta in campo la candidatura di Carlo Calenda, dopo l’iscrizione al partito del ministro dello Sviluppo economico. Esclusa la discesa in campo del sindaco di Milano, Beppe Sala, che a Radio1, ribadisce: “In questo momento le primarie sono un atto da ego riferiti. Non dobbiamo approfittare della pazienza degli elettori di sinistra”.