Era il 25 maggio scorso quando Papa Francesco si trattenne in preghiera, durante la visita in Terra Santa, lungo il muro di cemento armato che divide Israele dalla Palestina. Un grande gesto per un’enorme illusione. Un sogno nuovamente infranto dal rapimento e l’uccisione, quasi certamente per vendetta, del giovane palestinese Mohammed Abu Khedir. Una violenta risposta al triplice assassinio dei giovani israeliani rapiti e poi trovati cadaveri in Cisgiordania.
Questa è l’unica risposta che probabilmente i leader politici hanno insegnato ai due popoli nel difficile percorso di comprensione reciproca. In queste ore, oltre al commiato dalle giovani vittime israeliane e palestinesi, andrebbe celebrata la morte del processo di pace in Medio Oriente.
Sono riprese le dichiarazioni durissime dei leader politici e spirituali. Sono riniziati i bombardamenti delle forze aeree israeliane. È ricominciato a scorrere il sangue a Geruslamemme con scontri fra giovani arabi e soldati israeliani. Alemo 50 i feriti, tutti palestinesi. I disordini sono scoppiati appena rese note le generalità di Mohammed, assassinato a 17 anni. Frombole, fionde, molotov, copertoni incendiati lacrimogeni e proiettili di gomma. Così si vive da ieri in Shuafat Road, una strada a Gerusalemme Est.
Intanto continuano a emergere particolari raccapriccianti sugli scontri e sulle morti degli ultimi giorni. Pare che, per rappresaglia, coloni ebrei partano con le auto alla ricerca di giovani arabi da eliminare. Azioni degne da squadracce d’altri tempi. La violenza non ha colore politico. È l’offesa più grave che si possa rivolgere alla ragione, al dialogo e all’integrazione. Mentre mezza Gerusalemme è in battaglia i genitori di Naftali Frenkel, al funerale del figlio, gridano dolore ma anche indignazione per la morte del giovane palestinese.
Emanuele Bianchi