Raccontano le bombe. Ma non capita di rado che ne diventino il bersaglio. Quello dei reporter di guerra è un lavoro duro. E scomodo, soprattutto per i comandi militari. Il loro compito è raccontare al mondo cosa avviene sul fronte. Ma, per svolgerlo, sono esposti a censure o controlli più o meno rigidi, se va bene. Al piombo, se va male. Negli ultimi dieci anni sono stati uccisi 1807 giornalisti. Dall’inizio di quest’anno già 26; e in prigione ce ne sono attualmente 305.
Il Vietnam è stato lo spartiacque del giornalismo di guerra. Il conflitto è entrato per la prima volta nelle case della gente senza filtri, generando moti di protesta in tutto il mondo. Di lì in poi, i reporter sono stati costantemente tenuti d’occhio. Con la guerra in Iraq è nata la figura del giornalista ‘embedded’, il reporter al seguito dei soldati e con allegata autorizzazione. Alcuni hanno parlato di un tentativo di “arruolare” l’informazione, di sottoporla a restrizioni. Chi è stato embedded nega solitamente di aver subito pressioni. Che si sia arruolati o freelance, si offre comunque uno spaccato di un conflitto. E si è ugualmente esposti a rischi.
La situazione attuale in Siria ne è la conferma. Bashar al-Assad ha deciso infatti di mettere i cronisti sotto il tallone. Ha persino arruolato un esercito digitale, il Syrian Electronic Army, che conduce una guerra virtuale agli oppositori del regime. Ma più degli attacchi digitali, sono i colpi d’artiglieria a far paura. Gli intensi bombardamenti del 22 febbraio sul quartiere di Baba Amr, nella città di Homs, hanno infatti causato la morte di due giornalisti, Remi Ochlik e Marie Colvin, che si aggiungono agli altri cinque dall’inizio di quest’anno. I due si trovavano in un’abitazione che veniva usata dagli attivisti come media center. Secondo Reporter senza frontiere l’edificio è stato colpito in modo intenzionale, essendo noto il fatto che ospitasse regolarmente giornalisti. Remi era un foto-reporter francese di 28 anni, già vincitore dell’edizione 2012 del World Press. Marie, americana di 56 anni, scriveva invece per il Sunday Times ed era tra le più brave nel mestiere. I bombardamenti del 22 febbraio hanno causato la morte anche di un video-blogger siriano 27enne, Ramy al-Sayed. Sono invece rientrati il 3 marzo dalla Siria i reporter francesi Edith Bouvier e William Daniels, anche loro coinvolti nell’attacco di Baba Amr. “Ci sono state meno di cinque esplosioni, una dietro l’altra, molto ravvicinate” hanno spiegato al quotidiano Le Figaro. “Avevamo davvero l’impressione di essere direttamente presi di mira”. Ma sono le parole di Marie Colvin, prima che morisse, le più esaustive: “È il peggiore conflitto che abbia mai visto. A Misurata, in Libia, la sicurezza personale era in parte garantita. Qui invece non c’è nessun posto dove scappare”. Eppure, anche in questa guerra, il compito del reporter rimane sempre lo stesso: portare a casa il pezzo. E, si capisce, la pelle.
Claudio Paudice