I carabinieri si sono presentati qualche giorno fa, di buon mattino, per perquisire le loro abitazioni. Hanno analizzato e posto sotto sequestro i loro computer, smartphone, tablet e agende. Cercavano delle prove per inchiodarli. Sin qui tutto normale, se non fosse per il fatto che non stiamo parlando di criminali, ma di giornalisti, tre cronisti palermitani: Giuseppe Lo Bianco, Sandra Rizza e Riccardo Lo Verso. E’ andata ancora peggio a Francesco Gangemi, il giornalista calabrese di 79 anni, prima condannato al carcere, adesso ai domiciliari. L’accusa? Diffamazione a mezzo stampa.
Gli articoli incriminati. La perquisizione dei tre cronisti palermitani, eseguita dal Nucleo investigativo del Comando provinciale di Catania, sarebbe scaturita da una presunta fuga di notizie relativa ad un’indagine su Salvatore Riina, il boss della malavita da anni in carcere, ma che, stando ai fatti riportati, da dietro le sbarre continuerebbe a guidare ancora Cosa Nostra. Un vero scoop giornalistico, tanto che mercoledì 9 ottobre, i giornalisti Lo Bianco e Rizza, sul Fatto Quotidiano, firmano l’articolo “La Juve è una bomba. Totò Riina lancia nuova stagione di stragi”. Anche il collega Lo Verso non si lascia scappare la ghiotta notizia e ne scrive qualcosa sul sito d’informazione “Live Sicilia.it”.
La condanna di Gangemi. Anche la storia di Gangemi, seppur di diverso tenore, lascia qualche perplessità. Direttore del mensile “Il dibattito” ed ex sindaco di Reggio Calabria, il 5 ottobre scorso, Gangemi era stato infatti condannato al carcere a due anni per diffamazione aggravata a mezzo stampa. Giornalista pubblicista dal 1983, Gangemi ha collezionato una lunga serie di condanne (quasi tutte per diffamazione a mezzo stampa). Il provvedimento di carcerazione (adesso convertito negli arresti domiciliari) ha provocato l’immediata reazione della Federazione nazionale della stampa italiana. “E’ allucinante – hanno commentato il segretario generale Franco Siddi, e il vicesegretario nazionale e segretario del Sindacato giornalisti Calabria Carlo Parisi – che a 79 anni, un giornalista, condannato per diffamazione e per non avere rivelato le fonti fiduciarie di notizie, venga arrestato e portato in carcere. Quanto accaduto al giornalista pubblicista Francesco Gangemi – continua la nota – appare una mostruosità difficilmente concepibile per qualsiasi ordinamento democratico che si fondi sulla libertà di espressione, di stampa e sul pluralismo delle idee”.
L’arretratezza della normativa italiana. Il sindacato si pone in totale disaccordo anche alla misura cautelativa cui sono stati sottoposti i tre giornalisti. La Federazione nazionale della stampa italiana in una nota fa sapere: “Un filo contorto sta rischiando di provocare un grave corto circuito nel rapporto tra informazione e magistratura in Sicilia. E’ quanto siamo costretti a pensare – prosegue la FNSI – dopo una serie di vicende che vedono i giornalisti messi sotto pressione nel corso di indagini volte a prevenire e a combattere gravi reati mafiosi”. Anche l’Unione nazionale cronisti italiani e il Gruppo siciliano dell’UNCI esprimono solidarietà ai tre cronisti sottoposti a perquisizione, sottolineando come proprio il commissario europeo per i diritti umani, Nils Muiznieks, abbia più volte criticato l’Italia per l’arretratezza delle nostre norme sul diritto all’informazione. La legge italiana non si è infatti ancora uniformata alla giurisprudenza europea in tale ambito, in particolare a quell’art. 11 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, a tutela appunto della libertà di pensiero. E le sentenze della Corte di Strasburgo, sia contro l’arretratezza del nostro Codice in materia di limitazione alla stampa, come per certe azioni investigative contro i giornalisti continuano ad essere inascoltate.
Il segreto professionale e i suoi limiti. Pare che gli investigatori del Nucleo operativo di Catania cercassero l’origine di una presunta fuga di notizie su un’inchiesta, ancora in corso, contro ignoti, per violazione di segreto d’ufficio, con l’aggravante di aver favorito la mafia. Ma perquisire dei giornalisti solo perché hanno riportato notizie di cui sono venuti a conoscenza, sulla base di ricerche e valutazioni di carattere professionale, lascia sicuramente qualche perplessità. Di nuovo puntuale si presenta il dibattito sul diritto all’informazione e il reato di diffamazione a mezzo stampa. E allora sorge spontanea la domanda: è legittimo accostare il lavoro giornalistico a un’attività di favore verso la mafia, soprattutto quando i cronisti lavorano per offrire al pubblico notizie che risultano utili alla conoscenza e a promuovere un interesse sociale nei confronti della legalità? La messa in discussione del segreto professionale dei giornalisti da parte della magistratura, sempre e in ogni caso, potrebbe creare un cortocircuito dalle conseguenze imprevedibili. In tale contesto una modifica dell’attuale normativa che regola il reato di diffamazione sarebbe più che auspicabile.
di Marina Bonifacio