Il tizzone dell’odio è più ardente che mai e si alimenta di una fiamma costante di ora in ora dopo la decisione del Presidente americano Donald Trump di riconoscere Gerusalemme capitale d’Israele spostandovi l’ambasciata da Tel Aviv. Nelle strade delle principali città della Cisgiordania esplodono i tumulti, i manifestanti bruciano la bandiera a stelle e strisce e le foto del Presidente Trump, mentre proseguono gli scontri iniziati ieri anche a Gaza. “Facciamo appello per una nuova intifada contro l’occupazione e contro il nemico sionista, ed agiamo di conseguenza”, queste le parole del leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh in un discorso pronunciato dalla propria abitazione a Gaza e trasmesso dall’emittente Al Aqsa.
“Sono in contatto con molti Stati che hanno intenzione di spostare le loro sedi diplomatiche a Gerusalemme. Anche prima degli Stati Uniti”. Queste le parole del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, parlando per la prima volta dopo la decisione di Trump, in un discorso al ministero degli Esteri. “Siamo in contatto con altri Paesi affinché esprimano un riconoscimento analogo – ha continuato il premier – e non ho alcun dubbio che quando l’ambasciata Usa passerà a Gerusalemme, e forse anche prima, molte altre ambasciate si trasferiranno. È giunto il momento”. Netanyahu è l’unico, per il momento ad esprimere entusiasmo verso la decisione di Trump. Nel frattempo, infatti, otto paesi membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, tra cui anche Italia, Francia e Gran Bretagna, hanno chiesto una riunione di emergenza che si terrà venerdì.
Trump intanto rimane fermo sulle sue posizioni. La sua convinzione è quella di rafforzare, in questo modo, i legami con Israele e di rispettare così l’impegno preso in campagna elettorale con la sua base evangelica e conservatrice. Ma la decisione rischia di rallentare, se non seppellire definitivamente, la conclusione degli accordi di pace con i palestinesi, una possibilità ormai avviata su un terreno impervio.