È finito l’incubo della detenzione in Gambia per Massimo Liberati, uno dei due pescatori italiani arrestati il 2 marzo scorso dalle autorità marittime locali. Il comandante dell’imbarcazione “Idra Q” di proprietà della società Italfish, Sandro De Simone, dunque rimarrà in carcere fino a quando l’armatore non salderà l’ammenda stabilita dalle autorità giudiziarie.
L’arresto è avvenuto durante una battuta di pesca. I militari della marina del Gambia, una volta saliti a bordo per un’ispezione, hanno riscontrato presunte violazioni ad una rete non utilizzata le cui maglie, misurate con un righello, avrebbero una dimensione di 68 cm invece dei 72 previsti.
«Il carcere è una pena troppo crudele rispetto al reato che avrebbero commesso. La Marina del Gambia li accusa, infatti, per una sola rete da pesca, trovata sul ponte di coperta il 12 febbraio durante un’ispezione». Queste le parole di Gianna De Simone moglie del comandante durante un’intervista concessa al Corriere della Sera. «Ho più paura oggi che nel ’92, quando mio marito finì nelle mani dei pirati somali. Rimase sequestrato per un mese, all’epoca, in attesa che dall’Italia la sua compagnia pagasse il riscatto per liberarlo. Ma almeno i pirati somali – riferisce la donna – gli facevano telefonare a casa due volte alla settimana e alla fine nacque quasi una fratellanza tra di loro, mangiavano insieme, a bordo, il pesce pescato. Questa volta, invece, è buio fitto».
A dare la notizia della scarcerazione è stata la Farnesina, il cui personale sta monitorando costantemente la vicenda attraverso l’intervento del vice ambasciatore d’Italia a Dakar, Domenico Fornara. Il diplomatico oggi stesso si recherà a Banjul per visitare nel carcere di Mila 2 il comandante del motopeschereccio.
«L’Italia ha il dovere di chiedere che il marinaio italiano sia trattato in maniera umana e che abbia le garanzie durante la fase giudiziaria, che non sia sottoposto a torture – ha dichiarato sulle pagine del Giorno Riccardo Nury, portavoce di Amnesty International Italia– Sulla base delle nostre ricerche il carcere di Mila 2 è noto per le condizioni inumane di detenzione e per l’uso della tortura».
Emanuele Bianchi