Guerre, povertà, discriminazioni etniche e religiose. Fattori che balzano subito alla mente quando si parla della crisi migratoria. Un problema che sembra destinato ad amplificarsi, anche per via di una categoria di migranti di cui però non si sente quasi mai parlare: i migranti ambientali.
Detti anche eco-profughi o rifugiati climatici, seppur entrambi i termini appaiono errati a causa, come vedremo, di un mancato riconoscimento giuridico, sono “quelle persone costrette a lasciare il loro habitat tradizionale a causa di una interruzione ambientale, che ha messo in pericolo la loro esistenza”, come recita il rapporto del Programma dell’Onu per l’Ambiente del 1985. Da allora, però, i disastri ambientali e i cambiamenti sul lungo periodo si sono moltiplicati, così come il numero delle persone che si è spostata per questi motivi. Anche l’attenzione della comunità internazionale negli anni è cresciuta, seppur le agenzie dell’Onu – l’Unhcr, il Programma Ambientale e il Programma di Sviluppo – sostengono che è preferibile usare il termine di “displaced person” (sfollati), perché le altre definizioni sarebbero un abuso del concetto giuridico di rifugiato espresso nella Convenzione di Ginevra del 1951 e nel suo Protocollo Aggiuntivo del 1967. A una differenza terminologica si accompagna anche un differente trattamento giuridico. Attualmente, infatti, non esiste una protezione legislativa di carattere internazionale adeguata per questa categoria di migranti, nonostante i dati e le previsioni future siano elevati e in aumento.
Negli ultimi dieci anni i disastri naturali hanno colpito 1,7 miliardi di persone e ne hanno uccise almeno 700mila. Dal 2008 una media di 26,4 milioni di persone all’anno sono state spinte a migrare da calamità naturali. Secondo l’Organizzazione mondiale delle migrazioni le probabilità di essere sfollati a causa di un disastro naturale sono salite del 60% rispetto a quarant’anni fa, mentre dal 2008 ci sono state oltre 200 milioni di persone delocalizzate o sfollate, l’85% dei quali per eventi atmosferici. Per quanto riguarda le previsioni future, le cifre sono ancora più preoccupanti. Secondo vari rapporti delle Nazioni Unite, tra cui il Programma per l’Ambiente e la Convenzione per il contrasto alla desertificazione, saranno decine di milioni gli sfollati climatici, dei quali ben 60 milioni entro il 2020 potrebbero spostarsi dalle aree desertificate dell’Africa Sub-Sahariana verso il Nord Africa e l’Europa. A livello globale la stima più citata è quella dello scienziato britannico Norman Myers, che prevede circa 200-250 milioni di potenziali migranti ambientali entro il 2050, ma ci sono stime ben peggiori, come quella dell’autorevole rivista scientifica Lancet Countdown che ha recentemente parlato di 1 miliardo di rifugiati climatici entro il 2050. Quello che emerge è quindi che il fenomeno, seppur poco trattato a livello mediatico, è di rilevanza primaria e probabilmente di intensità superiore a quello dei profughi di guerra.
Il mutare del clima è alla base delle migrazioni forzate anche in alcuni territori del cosiddetto Mena (Middle East and North Africa) e, seppur in maniera diversa, in alcune isole del Pacifico. L’area mediterranea è interessata da due problematiche: l’innalzamento del livello del mare e la desertificazione. La situazione dell’Africa a sud del Sahara è addirittura più grave, se si pensa che dal 2011 la Somalia – e con essa l’intera regione del Corno d’Africa – è stata colpita da una siccità che ha messo in fuga in poco tempo migliaia di persone. Siccità che portano a carestie ingenti, come quella del Sud Sudan e del bacino del lago Chad, definita nell’aprile del 2017 dalle Nazioni Unite come “una crisi senza precedenti negli ultimi decenni”. Il bacino d’acqua, infatti, è l’unica fonte di sopravvivenza per ben 30 milioni di persone e oggi rischia di scomparire.
Non solo il deserto, ma anche il mare avanza, facendo scomparire isole e arcipelaghi. Emblematico il caso delle Isole Carteret, appartenenti alla Papua Nuova Guinea, che sono diventate, già prima del 2015, il primo sito al mondo in cui tutti i residenti si sono spostati a causa del cambiamento climatico. Un destino che toccherà presto altre isole ed in particolare Kiribati e Tuvalu, ma anche gli abitanti delle Isole Cook, Marshall e perfino delle Maldive. Le Kiribati, un complesso di tre arcipelaghi che fa parte della Micronesia e ha una popolazione di circa 100mila persone, potrebbero essere, secondo la rivista Scienze, la prima nazione della storia ad essere completamente cancellata dal mutare del clima. Il governo locale, intanto, ha già avviato il programma “Education for Migration” per riqualificare professionalmente la popolazione e renderla così più “attraente” come migranti e gli stati vicini, come Australia e Nuova Zelanda, valutano già da tempo la possibilità di dover presto ospitare i Kiribatians. All’interno dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, inoltre, gli stati indipendenti delle isole del Pacifico hanno presentato una bozza di risoluzione – sponsorizzata anche da Canada, Filippine, Australia, Nuova Zelanda e Unione Europea – nella quale hanno sottolineato le gravi conseguenze che il cambiamento climatico potrebbe avere sulla stabilità interna degli Stati e sulle relazioni internazionali.
Si innesta qui, infatti, il problema centrale: ovvero l’aspetto giuridico e il riconoscimento dei migranti ambientali come tali. L’attuale diritto internazionale, infatti, «non prevede la figura del migrante ambientale, ma lo classifica generalmente nel migrante economico» come spiega il professor Vincenzo Buonomo, docente di Diritto Internazionale alla Pontificia Università Lateranense e alla Lumsa. Inoltre «la maggior parte dei migranti climatici arriva non per le vie legali, ma molto spesso attraverso vie legate all’attività della criminalità organizzata». Da qui la difficoltà nel riuscire a trovare storie e testimonianze dirette di persone costrette a scappare dai propri territori per cambiamenti o devastazioni legate al clima. Ma quali i rimedi a quello che sembra essere un vero vuoto legislativo? «Sempre di più – precisa Buonomo ai microfoni di Lumsanews – la stessa protezione della Convenzione di Ginevra del ‘51 viene estesa e probabilmente si allargherà anche a poter considerare i migranti ambientali. Questa è ovviamente una proiezione senza avere la pretesa di leggere il futuro». Infine, uno spiraglio sembra arrivare dall’Accordo di Parigi sul clima del 2015. Come spiega Buonomo, «in quell’accordo la questione dei migranti climatici è entrata in modo indiretto perché si parla di un’azione per evitare spostamenti forzati di popolazione. Nei famosi 100 miliardi di dollari che entro il 2020 dovrebbero servire per coprire i danni creati dai cambiamenti climatici, uno degli obiettivi è quello di evitare migrazioni forzate, quindi evitare che ci siano migranti climatici».