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all’auditorium di Roma
tra passato e presente

Francesco Guccini si racconta
all’auditorium di Roma
tra passato e presente

di Michela Eligiato07 Novembre 2016
07 Novembre 2016

“Mi chiamo Francesco Guccini, ex cantautore italiano, senza olio di palma”. È così che si è presentato ieri sera, nella sala di Santa Cecilia, in una delle due tappe romane del suo tour affabulatorio “Francesco Guccini. Incontro con Francesco Guccini”, con la sua voce sempre spavalda, ma con lo sguardo basso tipico dei timidi. I suoi fedelissimi, che comprendono almeno tre generazioni, lo hanno accolto con applausi calorosi ed ovazioni tipiche per un cantante non certo “in pensione”, come preferisce definirsi. A presentarlo è il giornalista e critico musicale Riccardo Bertoncelli, proprio quello dell’Avvelenata e subito si divertono a spiegare le ragioni della loro diatriba. Bertoncelli, dopo la stroncatura senza appello del quinto album di Guccini, Stanze di vita quotidiana, viene inserito nella celebre canzone per essere uno di quelli che “tanto ci sarà sempre, lo sapete, un musico fallito, un pio o un teorete, un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate”.

È un tour di ricordi quello di Guccini, che parla dell’amore per la musica, dei modi con i quali si intreccia con la sua vita, raccontando di luoghi a lui cari o di posti cari alla memoria collettiva. E così si viaggia da Via Paolo Fabbri 43 ad Auschwitz. Non senza emozione, Guccini racconta di quando, meno di un anno fa, è andato a visitare il campo di concentramento, definendolo “il più grande cimitero occidentale senza tombe” e di come – sdrammatizzando – sia caduto, rompendosi l’omero. Nel corso della serata, ha ricordato tanti amici, da Giorgio Gaber a Lucio Dalla, sottolineando la loro dedizione al palcoscenico, alla musica e alle prove fino a tarda sera, tutto quello che non è mai stato Guccini. Pigro e certamente abitudinario, salire sul palco costava fatica e dei concerti amava l’attimo prima, quando scherzava con i musicisti su dove andare a mangiare e l’attimo dopo, quando finalmente andava a farlo. Il cibo – dice – è di sicuro una delle storie d’amore più durature che abbia avuto, considerando che dura tutt’ora!

Da sempre convinto che scrivere canzoni è un rito per il quale se si ha da dire qualcosa lo si imprime sulla carta, ha deciso di smettere quando voleva comunicare in modo diverso, scrivendo libri. Così ha cominciato la sua avventura nel mondo dei gialli, prima da solo e poi con Loriano Machiavelli, e dei romanzi. Con velata amarezza racconta come “Croniche epafaniche”, edito Feltrinelli, sia stato forse un esperimento editoriale fatto perché era già conosciuto come “Francesco Guccini, il celebre cantautore”, ma subito, ridendo ed emozionandosi, come si fa con i ricordi più cari esclama: “del resto il mio maestro delle elementari lo disse al mio babbo di lasciar perdere con l’idea di far lo scrittore: a scrivere è un cane”. Il suo amore per le parole l’ha portato a scrivere un dizionario del dialetto pavanese perché, conoscere il dialetto non restituisce memoria solo alle “cose perdute”, ma arricchisce con nuovi colori la tavolozza della nostra fantasia. E sempre parlando di parole, immancabile il commento sul Nobel a Dylan: “tolta la sottile invidia che mi ha pervaso, sono rimasto piacevolmente colpito del fatto che hanno finalmente sdoganato la canzone, da sempre considerata un genere letterario di serie B.” Nel salutare la platea, Guccini quasi ancora stupito di quante gente lo abbia accolto, rinnova, tra le righe, l’invito a casa sua a Pavana ma con una specifica richiesta: “Sono anni che mi portate del vino rosso, sono scarso di vino bianco”.

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