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Fotogiornalismo collettivo, come si può raccontare la realtà vista con occhi diversi

di Nino Fazio02 Maggio 2014
02 Maggio 2014

Fotogiornalismo collettivo: raccontare la realtà con occhi diversi

In scena al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia, il workshop “Come raccontare collettivamente una storia attraverso le fotografie”. I rappresentanti di tre diversi collettivi fotografici hanno raccontato la loro esperienza, illustrando i loro progetti migliori. Caratteristica comune alle tre esperienze la condivisione e il confronto.

Collettivo fotografico, il caleidoscopio della realtà. «Ai fotografi – che naturalmente nella fase dello scatto lavorano da soli – manca spesso il confronto; noi ci rapportiamo con tutti» afferma Andy Rocchelli, co-fondatore del collettivo “Cesura”. La loro avventura è nata nel 2008 nell’agenzia fotografica Magnum Photos, sotto la guida di Alex Majoli, divenuto poi direttore. Sei assistenti – tra cui lo stesso Rocchelli – decidono di mettersi in proprio. Oggi Cesura ha molti collaboratori che si spostano in ogni parte del mondo per immortalare il flusso della storia che scorre davanti al loro obiettivo. Dai paesi della Primavera Araba ai recenti fatti dell’Ucraina e della Crimea, passando per le tendopoli de L’Aquila: ogni fotografo ha uno stile personale e un punto di vista unico. La sintesi si fa in studio con la fase di editing, per Rocchelli «occasione per scremare e raffinare il prodotto» senza rinunciare alle svariate sfaccettature della realtà. Da qualche anno della galassia Cesura fa parte anche “Cesura publish”, una casa editrice, che pubblica i progetti del collettivo, con l’obiettivo di mantenerne inalterata l’indipendenza. Al pari dei collettivi che si rispettino, tutti possono diventare collaboratori: basta il talento e l’imprimatur della commissione artistica ad almeno due progetti presentati.

L’ironia come chiave per il racconto fotografico. Edoardo Delille si è invece fatto portavoce di una prospettiva della fotografia apparentemente più leggera e ironica. La Riverboom, di cui fa parte, realizza delle guide fotografiche attraverso i cliché e gli stereotipi visivi dominanti. Una fotografia didascalica e l’idea di serialità costituiscono la cifra stilistica del loro collettivo. Non avendo una sede fisica e abitando in paesi diversi, i membri usano la rete come piattaforma di pianificazione del progetto. «L’idea – precisa Delille – deve essere da subito ben chiara, in modo da realizzare in post-produzione un portfolio omogeneo in cui  spesso nessuno riesce a riconoscere le proprie foto da quelle degli altri». Così, capita di far combattere la prima guerra mondiale alla neutrale Svizzera, contrapponendo le foto di stereotipi altamente identificativi a scatti analoghi nel soggetto, e nel cliché, ma catturati in altre parti del mondo. Il conflitto “Switzerland Vs the world” si combatte a colpi di cibo, mezzi di trasporto e barbe folte. «Le foto – ci tiene a precisare Delille – sono apparentemente scanzonate ma prevedono vari livelli di lettura. Per questo ogni foto è corredata dal testo di un nostro giornalista». Un altro punto in comune alle diverse esperienze, infatti, è la sovrapposizione con il giornalismo e la volontà di raccontare la realtà.

Il fotogiornalismo crossmediale. Il fondatore di Terraproject, Michele Borzoni, ha invece acceso i riflettori sul land grabbing, pratica sempre più diffusa che consiste nell’acquisto o nell’affitto su larga scala da parte di investitori stranieri di terre in via di sviluppo destinate alla produzione industriale. Il paradosso di una popolazione che coltiva la terra ma non la possiede è uno tra i lavori più significativi di questo collettivo, che sta lavorando a un prodotto sempre più crossmediale. Interessante la presentazione di una applicazione per tablet – ancora nella versione demo – che alle foto integra il testo e l’audio. Basta ruotare il tablet in senso orizzontale per veder comparire il testo e il sonoro. «L’obiettivo – sostiene Borzoni – è quello di ricreare il contesto nel quale la foto è stata scattata, fornendo così sempre più informazioni alle testate che ci commissionano il lavoro».

Una lezione da tenere a mente. Uscendo dalla mostra, lo sguardo indugia sul maxischermo, sul quale scorrono ancora le foto. La mente corre al “Salon” parigino, celebre esposizione di pittura e scultura, simbolo di un’epoca che, ahinoi, non c’è più. La fotografia – per alcuni figlia legittima della pittura, sorella minore per altri – ci ha regalato oggi profonde emozioni, ricordandoci anche che la vera crescita nasce dalla diversità dei punti di vista. Una lezione di pluralismo che, nell’ambito di una kermesse di giornalismo, cade proprio a fagiolo.

Antonino Fazio

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