Francesco Carotti è stato direttore operativo della Virtus Roma fino al dicembre 2020. Adesso è direttore marketing e comunicazione della Bertram Yachts Derthona, club piemontese che milita in A2.
Per quali motivi la Virtus Roma a dicembre ha detto addio alla serie A? Senza il Covid sarebbe accaduto comunque?
“Indubbiamente non è l’unica ragione, ma ha pesato molto. Con la pandemia le attività commerciali che hanno a che fare con il pubblico sono state molto penalizzate. In questo momento storico andare avanti da soli con gli investimenti di un unico imprenditore era molto complicato. L’ingegnere Claudio Toti ha tenuto in piedi la pallacanestro romana per più di vent’anni e ultimamente purtroppo è stato abbandonato. Si reggeva tutto sulle sue spalle e questo non poteva rappresentare un modello duraturo. Ci sarebbe stato bisogno di una persona, come l’ex sindaco Walter Veltroni, per provare a mettere insieme degli imprenditori che avevano a cuore il basket romano. Così non è stato e la Virtus si è spenta nel silenzio”.
Così una società funziona soltanto se c’è qualcuno che investe grandi quantità di denaro… Quali sono le principali entrate di un club?
“Sostanzialmente in questo momento è necessario che ci sia un mecenate che possa finanziarla. O quantomeno una serie di entità che garantiscano introiti costanti. Andare in guadagno con lo sport in Italia è improponibile, non lo scopro certo io. È innegabile che i grandi modelli di squadre che vincono da noi in questo momento lo fanno con un imprenditore dietro, vedi Milano con Armani, Bologna con Zanetti e Venezia con Brugnaro. La mosca bianca è un club come Sassari, che ha partner tenuti assieme da una persona che è geniale nel suo modo di fare società, cioè Stefano Sardara. Però in questo momento la pallacanestro difficilmente è sostenibile. Le entrate sono rappresentate infatti da sponsor e pubblico, in ordine diverso a seconda delle piazze. Il resto è abbastanza marginale. Gli introiti televisivi sono limitati a una percentuale risibile del budget. Parliamo del 5% per una squadra che deve puntare alla salvezza, percentuale che si riduce ancora per un club molto ambizioso. La Lega da questo punto di vista sta cercando di compiere passi avanti, ma il momento economico non consente di aumentare i ricavi in modo sensibile. Il merchandising? Non è certo quello che ti fa fare la differenza”.
I costi della serie A sono molto più elevati rispetto all’A2?
“In seconda serie, e più in generale nel dilettantismo, la tassazione incide meno. Pagare uno stipendio da 10.000 euro in A2 è ben diverso dal pagarlo in serie A, dove al lordo diventano circa 23mila. Questa è una voce di spesa che si fa sentire molto per chi compie il grande salto. Però c’è anche il rovescio della medaglia, perché è chiaro che l’appeal che ha la serie A è diverso da quello che può avere la A2. Poi è chiaro che esiste una differenza fra le grandi e piccole città. Faccio un esempio: a Roma una A2 fatta per sopravvivere non ti porta la stessa attenzione e quindi gli stessi introiti di una serie A. Di certo, invece, in una piazza più piccola potrebbe avere un ritorno molto grande perché per il pubblico rappresenterebbe comunque un evento importante”.