È lunedì mattina e davanti all’entrata dell’esposizione universale di Milano si vedono per lo più zainetti e cappellini colorati. Niente cravatte e ventiquattrore, almeno fino alle 19. Di lì, sui tavoli dei numerosi ristoranti di Expo, più che le specialità di venti regioni italiane e del mondo, si impiattano trattative, si contratta e si vende al miglior offerente.
E così di giorno migliaia di studenti chiassosi saltano sulle reti del padiglione del Brasile (preso d’assalto dai più giovani), si prestano all’interattività dei centri espositivi più tecnologici e fanno la fila davanti agli assaggini Perugina. Di sera, quando inizia a calare il buio e i led e il futurismo di certi padiglioni ti catapultano in una atmosfera da base spaziale sulla Luna, spuntano fuori come funghi i cravattoni e le chiome brillantinate. E sui tavoli lungo il decumano (la via direzione est-ovest di Expo) si intravedono brochure, cartelline, magari contratti e penne pregiate per firmarli.
Un orecchio curioso può captare di tutto: “Anche tu lavori sui giapponesi?”, oppure “Sì, mi perdoni è tardi, ma sto chiudendo un contratto, confermo la prenotazione comunque, mi tenga la camera”, ma anche “Mamma, ho sonno, quando chiude Expo?”. Perché sono poche, ma all’Expo ci sono anche le famiglie. Eppure il sito espositivo sembra fatto su misura per loro: padiglioni divertenti su cui “scaricare” i bambini per delle ore (gli scivoli della Germania, le altalene dell’Estonia, i giochi digitali della Lituania), il children park con le mascotte di frutta e verdura e i molteplici punti di ristoro, dove papà e mamma trovano volentieri rifugio, sempre sfiniti.
Insomma Expo per ora corre forte. Unica pecca, che per il paese ospitante è quasi una vergogna, le opere incompiute: sul cardo (la via nord-sud riservata all’Italia) ancora qualche costruzione sigillata, mentre tra i cluster (che dovevano essere la meraviglia dell’esposizione) ben 17 nazioni sono ad oggi inaccesibili. Lavori in corso.
Nicola Stacchietti