La comunità bangladese in Italia rappresenta il 3,4% della popolazione straniera in Italia, ma se ne parla pochissimo. Nonostante la presenza sul territorio sia sestuplicata negli ultimi vent’anni e le attività commerciali siano sempre più diffuse, la loro cultura è sconosciuta ai più: agli occhi degli italiani i bangladesi perpetrano le proprie tradizioni, si associano e portano avanti imprese indipendenti. È davvero così? Qual è il loro livello di integrazione?
“Preferisco parlare di inclusione anziché di integrazione, perché quest’ultimo preclude che ci sia un gruppo che debba necessariamente integrarsi a un altro; mentre per inclusione s’intende una convivenza in un’ottica di rispetto reciproco”. Katiuscia Carnà, dottoressa in Ricerca Educativa e Sociale nell’Università Roma Tre ed esperta in cultura bangladese, spiega a Lumsanews ciò che sta intorno alla presenza dei bangladesi in Italia. Ma prima di partire, ci tiene a sottolineare un aspetto: “Bisogna attuare una distinzione tra la prima generazione, coloro che sono arrivati in Italia 25 o 30 anni fa – con tutte le difficoltà correlate, soprattutto linguistiche – e la nuova generazione, cioè coloro che sono nati e/o cresciuti qua. Sono questi ultimi a rappresentare il legame tra le due culture”.
La comunità bangladese in Italia però, sembra intenzionata a portare avanti le proprie tradizioni e a chiudersi nella propria bolla culturale, è corretto?
“Sicuramente c’è un deciso rafforzamento identitario rispetto alla tradizione di origine, ma questo è tipico, a livello sociologico, di tutte quelle comunità straniere che rappresentano una minoranza culturale e soprattutto religiosa. Per alcuni aspetti c’è la volontà di includersi a livello sociale e lavorativo nel tessuto sociale italiano, dall’altra parte permane il desiderio di rimanere legati alla propria identità e alle proprie tradizioni culturali e religiose”.
Perché, una volta arrivati in Italia, i bangladesi si dedicano soprattutto al commercio?
“Essere piccoli o medi imprenditori favorisce l’inclusione sociale e lavorativa. La mancanza di conoscenza della lingua italiana e di alcune competenze inerenti al mondo del lavoro locale preclude ad una grande porzione di bangladesi un lavoro di dipendente. Aprire un’attività in autonomia invece, come un negozio di alimentari, permette loro di attuare un percorso di inclusione socio-lavorativa e di indipendenza di più facile accesso. Poi i bangladesi, così come gli indiani, hanno gran spirito di imprenditoria in alcuni settori, come quello agro-alimentare”.
Come riescono ad aprire queste attività? Dove trovano la liquidità?
“Innanzitutto, per aprire un negozietto non servono moltissimi soldi. Spesso inoltre accade che si mettano insieme più soci, cosicché hanno più disponibilità economica iniziale. Per imprese medio-grandi possono essere anche dieci o venti persone e poi negli anni, quando l’impresa va bene, i soci prendono la loro quota e si sfilano. Un altro metodo è quello di vendere nel paese di origine un terreno o una proprietà che permette loro di accumulare un piccolo capitale”.
Fenomeno rimesse. Il Bangladesh è il primo paese che riceve dall’Italia, perché?
“Il legame con la famiglia di origine rimane forte per tutta la vita dei bangladesi. Questo è il principale motivo delle rimesse. Se in passato erano principalmente gli uomini adulti a migrare, negli ultimi anni si è registrato anche un aumento della comunità bangladese femminile. In ogni caso, persiste qualche membro della famiglia di origine a cui spedire il ricavato, che sono spesso genitori o fratelli o sorelle rimaste lì. Altro punto influente sono i differenti progetti migratori: se da un lato le nuove generazioni immaginano il loro futuro in Europa, gran parte di coloro che sono arrivati decenni fa desidera magari tornare in Bangladesh durante la pensione. Le rimesse inviate possono essere utilizzate per costruire appartamenti, garantendo non solo una rendita mensile fissa, ma anche una futura dimora per la vecchiaia”.