HomeEsteri Egitto nel caos, 22 mln di firme contro Morsi. Gas alle stelle. Via lo staff Usa

Egitto nel caos, 22 mln di firme contro Morsi. Gas alle stelle. Via lo staff Usa

di Lorenzo Caroselli01 Luglio 2013
01 Luglio 2013

In Egitto i prezzi dell’elettricità, del carburante, del pane sono sovvenzionati dallo Stato, ma ormai lo Stato egiziano non ce la fa più. Il Fondo monetario da più di un anno negozia un prestito di quasi 5 miliardi di dollari, ma il governo del presidente Morsi non dà nessuna garanzia di voler riformare l’economia. L’accordo sui soldi non arriva, quindi non arrivano i prestiti dell’Unione europea, quindi non ritornano gli investitori privati che anzi continuano a fuggire dal paese.
La paralisi del turismo e dell’industria in genere in questi ultimi mesi è stata affiancata da una nuova sciagura economica: in Egitto il gas sta finendo. Nel senso che mentre alcuni giacimenti sfruttati da anni si stanno letteralmente esaurendo (fra cui alcuni pozzi gestiti dall’Eni assieme alla spagnola Repsol), altri giacimenti rallentano il flusso per mancanza di manutenzioni e di investimenti e nuove scoperte non vengono esplorate perché pochi in questa fase di caos investono nel settore petrolifero egiziano.

Il risultato è che al Cairo e in tutto il paese manca la benzina, le code sono chilometriche. Altro fattore: dopo due anni di caos post-rivoluzionario si sono paralizzate le manutenzioni e i nuovi investimenti in centrali elettriche, per cui ci sono black out di continuo. Quindi ancora più egiziani in coda per acquistare carburanti che sono già scarsi.

A piazza Tahrir sono tornate le tende. Non quelle cupe dei senza tetto che nei mesi dopo la rivoluzione del 2011 avevano approfittato della deriva anarcoide del post Mubarak per dividersi la terra di nessuno con malviventi, provocatori islamisti o nostalgici del regime e giovanissimi demoni dostoevskiani.  

Le tende che oggi accoglieranno con caffè caldo i manifestanti in arrivo da ogni angolo del Cairo e dell’Egitto per contestare il primo anniversario della detestata presidenza Morsi hanno l’entusiasmo di due anni e mezzo fa, quando un paese coraggioso ma incosciente e ingenuo riuscì in 18 giorni ad aver ragione del trentennale regime del Faraone.  

Il morale è alto e lo spirito vivace, come testimoniano le t-shirt in vendita a Tahrir con Morsi che scappa travolto dal tifone «Tamarod» o gli onnipresenti cartellini rossi su cui, alla maniera calcistica, è scritto «espulsione». Ma se la prima rivoluzione è costata quasi mille vittime, la seconda potrebbe non essere meno violenta, almeno a giudicare dal bilancio degli ultimi tre giorni a Alessandria, Port Said e Mansura con 8 morti (tra cui l’americano Andrew Pochter), 606 feriti, 5 donne aggredite sessualmente. 

«Ci aspettiamo scontri, ma la presenza dell’esercito e della polizia, ostili ai Fratelli Musulmani, incoraggeranno molte persone a scendere in piazza nonostante la paura» osserva Ayman Alkadi, attivista di Dustur, il partito dell’ex capo dell’Aiea el Baradei nonché una delle principali sigle del cartello delle opposizioni Fronte di Salvezza Nazionale. Per vedere i blindati in postazione bisogna andare alla sede della televisione di stato, al palazzo presidenziale o vicino all’ambasciata statunitense che, contrariamente all’invito al dialogo della Casa Bianca, resta un tabù tanto per gli islamisti radicali (unici alleati dei Fratelli Musulmani) quanto per piazza Tahrir, dove uno striscione accusa Obama di sostenere «i terroristi» con la sua indulgenza verso Morsi. Ma seppure in borghese i militari sono ovunque, pronti a impedire «il caos» come annunciato sibillinamente dal ministro della difesa el Sissi.

«Aspettiamo che dopo averci messo da parte il paese ci richiami per essere protetto dai Fratelli Musulmani, in fondo, per esempio, siamo noi che stiamo mettendo in difficoltà Morsi con Hamas distruggendo i tunnel del contrabbando a Gaza» racconta una fonte dell’esercito. Il presidente islamista in realtà ha i suoi bei guai anche in casa dove la disoccupazione ha superato il 13%, la crescita è la più bassa degli ultimi vent’anni, la valuta estera come il turismo è in fuga e il prestito di 4,8 miliardi di dollari atteso dal Fondo Monetario Internazionale rischia di rivelarsi un boomerang per via dei tagli necessari ai sussidi di cui vive il Paese. Ma i militari pensano molto più strategicamente di quanto stiano provando a fare i Fratelli Musulmani, avidi di potere con la foga dei parvenue. E lavorano per mantenere il controllo sulla politica accaparratosi dai tempi di Muhammad Ali. 

A differenza del 2011 gli egiziani sono più consapevoli, confondono ancora l’opposizione con la protesta ma avanzano richieste concrete: dimissioni del presidente, governo provvisorio, nuove elezioni. Donne velate e non, cristiani, musulmani, tutti convinti che la partita non sia «il gioco a somma zero» vaticinato dall’analista Khalil Anani.

Lorenzo Caroselli

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