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Due volte italiani. Al Campidoglio le celebrazioni per il Giorno del Ricordo

di Claudio Paudice03 Maggio 2012
03 Maggio 2012

“Due volte italiani”. Così il consigliere del Comune di Roma Andrea Di Priamo ha definito le vittime giuliano-dalmate delle foibe e dell’esodo nel secondo dopoguerra. Il suo è stato uno dei tanti interventi durante la cerimonia dedicata al “Giorno del Ricordo” che si è tenuta il 6 marzo in Campidoglio. La celebrazione è stata istituita nel 2004, rompendo quel silenzio che per decenni ha avvolto il dramma giuliano-dalmata: un eccidio, compiuto dall’esercito slavo, che ha causato la morte di 15mila persone e l’esodo di 250mila italiani. L’incontro, in programma il 10 febbraio, era stato rinviato per l’emergenza maltempo.

Il 10 febbraio 1947 il trattato di Parigi assegnò l’Istria, Fiume e Zara alla Jugoslavia. Ma le persecuzioni nei confronti degli italiani che risiedevano in quelle zone cominciarono già prima della fine della guerra. La presenza italiana era infatti considerata intollerabile dal regime comunista di Tito. E andava eliminata, senza lasciar tracce. Più che un’annessione, si trattò quindi di una “slavizzazione” della Venezia Giulia. E fu durissima, tanto da assumere i tratti di una pulizia secondo alcuni etnica, secondo altri politica, come vendetta per i crimini compiuti dagli italiani durante l’occupazione fascista. Oppositori politici e soprattutto civili vennero catturati e giustiziati, i loro cadaveri gettati nelle foibe, inghiottitoi tipici delle terre carsiche profondi centinaia di metri. Altri furono deportati nei campi di prigionia slavi. Altri ancora annegarono, i loro corpi occultati dal mare. Mare che non fu solo luogo di morte, ma anche di salvezza per la popolazione giuliano-dalmata. Da Pola  e Spalato molte famiglie si misero in salvo grazie alle navi che raggiungevano l’Italia. Il piroscafo Toscana riuscì a rimpatriare, facendo la spola tra l’Istria e Venezia, circa 16mila profughi. Il clima di terrore istaurato dal regime di Tito produsse quindi un esodo massiccio di italiani, costretti a lasciare la loro terra per non soccombere alle persecuzioni slave. Per conservare intatta la propria identità, l’unica soluzione era andarsene.

Il dramma della popolazione giuliano-dalmata è stato a lungo dimenticato dalla politica italiana. Ed è solo dal 2004 che, con l’istituzione del Giorno del Ricordo, è crollato il muro dell’indifferenza. Durante le celebrazioni del 2007 il Capo dello Stato Giorgio Napolitano dichiarò: “Dobbiamo assumerci la responsabilità dell’aver negato, o teso a ignorare, la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e dell’averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali”. La vicinanza ideologica del Pci ai comunisti slavi, i compromessi con le potenze uscite vincitrici dalla guerra sulla definizione dei confini, le accortezze diplomatiche dell’Occidente nei confronti di Tito per aver rotto con Stalin, sono alcune delle ragioni che hanno fatto calare il silenzio su questa tragedia. A farne le spese sono stati gli esuli, prima abbandonati alla loro sorte e alle rappresaglie delle truppe titine, poi etichettati come fascisti in fuga. Due volte traditi dall’Italia. E per questo due volte italiani.

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