In guerra le fake news possono fare male, come le bombe. Nonostante la forma novecentesca dell’invasione russa in Ucraina, c’è un altro campo di battaglia in cui si combatte uno scontro meno visibile, ma non per questo meno decisivo: quello online. Negli ultimi anni a evolversi non sono state solo le tecnologie militari, ma anche e soprattutto i mezzi di comunicazione digitali, diventati in breve tempo una vera e propria “arma”. Come afferma Francesco Pira, professore di sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università di Messina e presidente dell’Osservatorio Nazionale sulle fake news di Confassociazioni, “per la prima volta nella storia, le fake news diventano strumento integrante di strategia, alla stregua delle armi, come se si stessero combattendo due battaglie parallele”.
Ciò è stato possibile grazie all’aumento esponenziale dei contenuti diffusi su internet, che hanno generato quella che il sociologo definisce una vera e propria “autostrada informativa”. Cambiando il modo in cui si documenta la guerra. Il conflitto in Ucraina ha infatti sancito l’affermazione del citizen journalism, ovvero della diffusione online di informazioni e racconti in presa diretta realizzati da persone comuni che si trovano nelle zone di conflitto. Un modo di raccontare la guerra più diretta ma che, se non correttamente contestualizzato, rischia di mistificare la realtà. “La costante disintermediazione assicurata dai tanti video pubblicati dai cittadini e militari ucraini che documentano gli scontri, su invito del Governo, sta senza dubbio agevolando il lavoro degli inviati di guerra, provenienti da tutte le parti del mondo – aggiunge il professor Pira – ma è anche vero che loro stessi ammettono che ogni giorno devono dribblare decine di fake news diffuse per controinformare l’opinione pubblica, pseudonotizie verosimili che distorcono la realtà delle città invase”.
Si crea quindi una dicotomia: da una parte il flusso informativo costante può essere utilizzato per raccontare ciò che accade in presa diretta, dall’altra questa corrente impetuosa di contenuti può essere difficile da gestire e, soprattutto, facilmente strumentalizzata. Tanto da attori non statali quanto da governi autoritari. Non a caso in Russia la gestione delle informazioni è di primaria importanza fin dai tempi dell’Urss. Come sottolinea Dario Fertilio, docente di Teoria e tecniche della comunicazione giornalistica all’Università Statale di Milano, “la propaganda governativa, la dezinformatsiya, che nasceva dai servizi segreti e lambiva ogni ambito della società, è stata applicata metodicamente dentro e fuori i confini, fin dai tempi di Lenin”.
Con la crescita dell’ambiente online, il Cremlino ha spostato la sua attenzione anche verso il controllo di Internet, arrivando a fondare nel 2013 la Internet Research Agency (IRA). Questa organizzazione ha oltre 1000 dipendenti nella sede centrale di San Pietroburgo, ma si serve di un ancor più grande gruppo di collaboratori sparsi in tutto il mondo. “Questa rete viene chiamata nel linguaggio tecnico Dead Hand, o anche sistema perimetrale – spiega il professor Fertilio – ed è formata da volontari, delle sorte di cellule dormienti, che si attivano in particolari occasioni, come delle elezioni o appunto la guerra, e immettono sul web una grandissima quantità di messaggi disinformanti, tramite l’utilizzo di profili falsi (troll) o attraverso i cosiddetti agenti di influenza”. Si tratta di enti o persone permeabili alle notizie pro-Russia che “mescolano una particella di verità e una buona dose di falso, e lo traducono in un messaggio a favore del Cremlino”.
L’Internet Research Agency (Agentstvo internet-issledovanija in russo) è di primaria importanza per Putin. A dimostrarlo è il fatto che l’IRA sia gestita dal gruppo Concord, di proprietà di uno degli uomini più ricchi di Russia, Yevgeny Prigozhin, soprannominato il “cuoco di Putin”, fedelissimo del presidente e a capo anche del gruppo Wagner, un esercito di mercenari altamente specializzato attivo in Donbass e in diverse parti del mondo. Come rivelato dal New York Times in un’inchiesta che ha poi dato il via al Russiagate, “la più grande fabbrica di troll e fake news al mondo” è fondamentale per screditare l’opposizione interna e per destabilizzare l’opinione pubblica delle democrazie liberali occidentali, secondo uno schema che viene adesso applicato per l’Ucraina. I disinformatori pro Putin hanno inondato Internet con immagini e video che raffigurano il paese confinante come aggressivo, sanguinario e neonazista, responsabile del genocidio della popolazione russofona del Donbass. Un’accusa, quella di pulizia etnica, smentita da NewsGuard, la più grande azienda al mondo che si occupa di valutare l’affidabilità di siti di informazione in sinergia con enti di debunking locali, secondo cui nessun organismo internazionale ha mai segnalato nulla che sostenga le affermazioni della Russia. Eppure, “termini quali ‘nazisti’ e ‘genocidio’ sono utilizzati specularmente da entrambe le parti, sia russa che ucraina, per alimentare le proprie propagande nazionali”, spiega Lorenzo Federico, analista e fact checker dell’IDMO, l’hub italiano European Digital Media Observatory, secondo quello che appare dall’analisi di un’immensa mole di dati digitali che i ricercatori dell’IDMO fanno utilizzando strumenti di come il Natural Language Processing.
Online si possono anche trovare storie a metà tra realtà e finzione ma dal forte impatto emotivo, come quella del “fantasma di Kiev”, un asso dell’aviazione ucraina che da solo avrebbe inflitto numerosissimi danni all’avversario a bordo di un velivolo obsoleto, un Mig-29 progettato nel 1977, prima di essere abbattuto. Propaganda, storie sensazionalistiche e leggende trovano così terreno fertile nell’ambiente digitale, trasformato in teatro di guerra tra il vero e il falso. “Armi” diventano allora i bot, programmi automatizzati che simulano sempre più precisamente il comportamento umano, o i puppet, eserciti di account creati da singole persone per rendere preponderante la propria opinione online. L’ampia disponibilità di informazioni rischia così di trasformarsi in una bolla fatta di notizie selezionate per noi da un algoritmo e che rafforzano le nostre opinioni, fino a estremizzarle. Per invertire questo processo e tutelare la validità delle informazioni, come sottolinea il professor Pira, diventa sempre più necessario “salvaguardare e promuovere un profondo e attento giornalismo d’inchiesta, libero e indipendente”.