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Dio salvi il Regno Unito. Dai suoi elettori

di Alessandro Testa07 Maggio 2015
07 Maggio 2015

uk-elections-2015A chi telefonerà questa sera la regina Elisabetta? Chi riceverà domattina a Buckingham Palace per affidargli l’incarico di Primo ministro? E’ questo il principale interrogativo delle elezioni più incerte della plurisecolare storia britannica. E’ infatti scontato che per la seconda volta consecutiva nessun partito raggiungerà la maggioranza assoluta dei seggi. Se però nel 2010 l’inedita alleanza di governo tra Conservatori e Liberaldemocratici era stata quantomeno di fatto preannunciata agli elettori, questa volta lo spettro dell’hung Parliament, di una Camera dei Comuni bloccata e ingovernabile, potrebbe diventare realtà insieme a quello di una politica britannica sempre più multipartitica, e perciò simile a quella dei non troppo amati paesi dell’Europa continentale.

Gli sfidanti. Tutte le proiezioni indicano infatti un sostanziale testa a testa fra i tories del Primo ministro David Cameron e i Laburisti del principale sfidante Ed Miliband, con un piccolo vantaggio per i primi (in media 273 seggi contro 268: molto lontano dalla maggioranza assoluta di 326) grazie al sistema elettorale rigidamente maggioritario, che prevede 650 collegi uninominali. Terzo incomodo potrebbero essere i nazionalisti-ambientalisti dello Scottish National Party, che dopo aver perso il referendum per l’indipendenza hanno cambiato leader e si sono affidati alla fresca e carismatica Nicola Sturgeon, vincitrice indiscussa di tutti i dibattiti televisivi. In Scozia i candidati indipendentisti sono competitivi in tutti i 59 collegi, e potrebbero vincerne 40-50, strappandoli ai Laburisti e ai Liberaldemocratici dell’attuale vicepremier Nick Clegg, che rischiano di ritrovarsi drasticamente ridimensionati e di tornare al ruolo di comprimari ricoperto fin dal dopoguerra.

I comprimari. Stessa sorte per lo United Kingdom United Party (UKIP) di Nigel Farage, gli euroscettici che giunsero addirittura primi appena un anno fa, quando si votò per l’emiciclo continentale: il probabile 13-14% dei voti gli frutterà infatti un simbolico terzo posto, ma si trasformerà in appena 2 o 3 seggi al Parlamento di Londra; gli stessi che dovrebbe raccogliere il partito autonomista gallese Plaid Cymru, mentre è incerta la sorte dell’unica deputata verde. Un caso a parte sono i 19 collegi dell’Irlanda del Nord, dove tradizionalmente i partiti britannici non si presentano e sono sostituiti da formazioni locali: i cattolici del Sinn Fein (sinistra radicale), gli unionisti protestanti del DUP (destra) e i Socialdemocratici-laburisti. Nel Regno Unito non esistono invece, al momento, partiti di ispirazione religiosa o etnica riconducibili alle minoranze frutto delle migrazioni, che rimangono invece ai margini della politica: proprio ieri un’inchiesta di Al Jazeera ha messo in evidenza come i britannici di religione islamica siano ormai il 20% della popolazione, ma che solo la metà di loro si è recata alle urne cinque anni fa.

Gli scenari. Considerato che abitualmente i sondaggi “penalizzano” i partiti conservatori rispetto ai risultati reali, questa sera David Cameron potrebbe quindi sfruttare una manciata di seggi di differenza per autoproclamarsi vincitore delle elezioni e cercare di restare a Downing Street almeno fino al prossimo Queen’s Speech, il discorso che la regina tradizionalmente tiene a inizio legislatura e in cui legge il programma di quello che nell’ordinamento britannico è ancora considerato a tutti gli effetti il governo della Corona: in tal caso sarebbero le opposizioni a dover poi proporre e votare a maggioranza una mozione di sfiducia. I Libdem hanno già annunciato che in caso di supremazia dei tories sarebbero in ogni caso disposti a proseguire nell’esperienza di governo comune, ma non si può escludere che un loro risultato particolarmente deludente non costringa Clegg alle dimissioni, rimettendo in discussione la linea del partito.

Qualora però il vantaggio dei Conservatori sui Laburisti fosse effettivamente molto contenuto, Miliband potrebbe invocare il sostanziale “pareggio” e cercare di formare un governo di coalizione a tre con gli stessi Liberaldemocratici e gli scozzesi del SNP, il cui programma è molto più avanzato di quello di tutti i principali partiti inglesi, dato che propone un assoluto rispetto dell’ambiente e della pace, a cominciare dal no alle centrali nucleari. Tutte ottime armi per la strategia comunicativa dei Conservatori, che non a caso hanno già bollato come “illegittimo” un eventuale governo Miliband fortemente condizionato dagli scozzesi – per non parlare dell’eventuale coinvolgimento nella maggioranza di uno o più partiti nordirlandesi.

Sarebbero tecnicamente possibili, ma al momento alquanto improbabili, anche l’ipotesi di un debole governo di minoranza formato da un monocolore tory o laburista, e quella di un loro gentlemen’s agreement per una grande coalizione alla tedesca.

I possibili referendum prossimi venturi. E’ probabile quindi che nelle prossime settimane la regina Elisabetta non avrà molto tempo da dedicare alla bisnipotina Charlotte. Quale che sia il prossimo governo, infatti, il cammino della prossima legislatura si preannuncia incerto, e non è detto che possa arrivare alla sua scadenza naturale. Anche perché se davvero i Conservatori continueranno a governare, hanno promesso che nel 2017 chiameranno gli elettori britannici ad esprimersi con un referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea. E gli autonomisti scozzesi potrebbero sfruttare l’incertezza politica a Londra per proporre rapidamente un nuovo referendum secessionista. A 89 anni Elisabetta potrebbe quindi ritrovarsi ancora una volta costretta ad assumere saldamente in mano in prima persona le sorti del suo regno, in attesa di una nuova generazione di leader.

Alessandro Testa

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