Italia, 1972. Nel pieno degli “anni di piombo”, Lucio Battisti cantava Il mio canto libero. E così, nonostante l’oscurità di quella fase della storia repubblicana, nell’immaginario collettivo si imprimeva un senso di leggerezza. «In un mondo che, prigioniero è, respiriamo liberi io e te. E la verità si offre nuda a noi, e limpida è l’immagine ormai» scriveva Mogol, Manuela Kustermann non lo ha di certo dimenticato nel suo Gabbiano messo in scena al Teatro Vascello di Roma. Gli attori, comparendo per la prima volta sul palcoscenico, sulle note di Battisti osservano alle loro spalle l’immagine di un gabbiano in volo: è il simbolo della felicità, della libertà e dei desideri che i personaggi cecoviani provano costantemente e inutilmente a raggiungere.
Il gabbiano, dramma in 4 atti dallo sguardo tragico e ironico, è una delle opere più note di Anton Čechov. Si tratta di una rappresentazione estremamente attuale – anche se datata 1895 – incentrata sull’intreccio di emozioni e natura, arte e generazioni. Il drammaturgo racconta le vicende di una famiglia borghese in villeggiatura, quella di Irina Arkadina, famosa attrice e amante dello scrittore Trigorin. Il figlio Kostya, come lei, è affascinato dal mondo della creatività e vuole diventare uno scrittore. La sua amata Nina – che però s’innamorerà di Trigorin – vuole fare l’attrice. I due giovani riusciranno a realizzare i propri sogni, seppur con profonda insoddisfazione.
Nell’adattamento di Kusterman una tenda rossa fa da sfondo alla scenografia dinamica ed essenziale, dove il gioco di luci – geometriche e della stessa tonalità – raggiunge il suo massimo nelle scene culmine del dramma. Le parole, infatti, si fondono ai gesti e ai colori, ai suoni e ai rumori, dando vita al “teatro immagine” tanto caro a Giancarlo Nanni (ideatore della messinscena) che Kustermann, collaboratrice di una vita, ha voluto con questo spettacolo omaggiare.
I protagonisti del Gabbiano vivono una pressione interna che sfocia in una violenza impotente: vorrebbero agire e sapere, ma rimangono bloccati in un’impasse esistenziale. Le luci, nell’uso sapiente di Valerio Geroldi, sono espressione di questi mutamenti interiori. I personaggi, poi, si muovono in maniera lenta e concisa – seguendo una coreografia – e sovrappongono le loro battute a quelle degli altri: lo spettatore, allora, è catapultato nella loro mente ed esplora la loro coscienza. Nina, inoltre, sulla scena ha un doppio: una figura che riflette le sue parole, ma in russo, e che si muove con l’andamento di un gabbiano (a cui si paragona).
L’incombere della morte, comunque, è percettibile dal principio. A terra, stropicciato, c’è un lungo panno nero che segna il perimetro tra palco e platea: è un telo che gli attori indossano sia all’inizio che alla fine del dramma, prima arretrando e poi avanzando verso il pubblico. Un elemento che segna il confine tra l’ultimo grido alla vita e la consapevolezza che qualcosa di tremendo stia per accadere.
La messinscena di Kustermann, però, tenendo a mente le intenzioni dell’autore, è anche una riflessione sul teatro stesso: oltre a criticare, per bocca di Kostya, il dramma borghese, viene evidenziato il rapporto shakespeariano tra il giovane scrittore e la madre Irina. Il loro, infatti, è un legame edipico simile a quello di Amleto con la regina Gertrude. Non solo. Il riferimento al “Bardo” si può ugualmente cogliere quando gli attori gettano a terra, nella scena iniziale, una rosa: lo stesso gesto è compiuto da Ofelia prima della sua morte. Irina e Kostya, poi, recitano alcune parti della celebre tragedia elisabettiana.
L’interpretazione di tutti gli attori, comunque, è magistrale. A dominare è Manuela Kustermann, che dà perfettamente anima e corpo all’Irina cecoviana. Da menzionare è anche il lavoro svolto da Anna Sozzani, la Nina russa, e da Sara Borsarelli, la malinconica Masha. Nota positiva anche per la componente musicale: Philip Glass, Meredith Monk e Michael Walton animano l’intero dramma.