Lo diceva Cesare Beccaria tra le righe “illuminate” del trattato “Dei delitti e delle pene” e lo ribadisce la Costituzione con l’articolo 27: l’imputato non può considerarsi colpevole fino alla condanna definitiva del giudice. Eppure, nella fucìna mediatica in cui fare scoop, scongiurando il rischio di “bucare” la notizia, sembra contare più del rispetto dell’identità di un individuo con tutto il suo background familiare e socioculturale, la tutela della privacy e il riserbo su indagini ancora in corso, restano, talvolta, per alcuni, un esercizio di nozionismo racchiuso nelle carte deontologiche del giornalismo o nella sfera delle coscienze. Ma c’è anche da dire che la necessità di dare la notizia, nello spasmodico tentativo di anticipare i colleghi sui dettagli, soddisfacendo i desideri di un’opinione pubblica scalpitante, talvolta assetata di particolari raccapriccianti, è il quid che muove, da sempre, la mano di ogni giornalista. E proprio a causa di quest’indole che contraddistingue da sempre i professionisti dell’informazione si finisce, talvolta, per precipitare nel calderone delle polemiche, tacciati di mancanza di etica, nel “far west” mediatico.
Il caso di Giuseppe Borsetti, fermato tre giorni fa perché accusato di essere il presunto assassino di Yara Gambirasio, la tredicenne di Brembate di Sopra uccisa tre anni e mezzo fa, ma anche il caso della donna uccisa con i suoi bambini dal marito, a Motta Visconti, rappresentano l’emblema di quella linea sottile che corre tra codice deontologico del giornalismo, esercizio del diritto di cronaca e di completezza dell’informazione, cari ad ogni professionista.
Il “cattivo esempio” in questo caso, prima ancora che dalla stampa, è arrivato dal ministro dell’Interno Angelino Alfano che, in un tweet, aveva trionfalmente comunicato l’individuazione
dell’assassino di Yara Gambirasio, rivolgendo un plauso alle Forze dell’Ordine, protagoniste di “un grande lavoro”. Una notizia che era costata al ministro una tirata di orecchie da parte del procuratore di Bergamo, Francesco Dettori, che, sul caso, aveva chiesto di mantenere “il massimo riserbo a tutela dell’indagato in relazione al quale esiste la presunzione di innocenza”. Alla puntualizzazione del procuratore che avrebbe voluto evitare di parlare subito di “assassino” aveva fatto eco la risposta secca del Guardasigilli: “Non credo che il procuratore ce l’avesse con me – è stato il commento di Alfano – invece si dovrebbe chiedere chi ha inondato i media di una quantità infinita di informazioni. L’opinione pubblica aveva il diritto di sapere”.
La stampa si è scatenata nell’irrefrenabile tendenza al patibolo e al pollice verso nei confronti del presunto colpevole. Inizialmente tra tutti i quotidiani e le testate online era prevalsa una sorta di reticenza, unita al rispetto del codice deontologico, che aveva indotto i giornalisti ad aggiungere l’aggettivo “presunto” alla parola “assassino”. Una sorta di ipocrita ossequio alla coscienza. Poi però l’accanimento scaturito dalla caccia al mostro ha sbattuto, su molte prime pagine e sulle testate online la foto del muratore di Brembate, padre di tre bambini, con tanto di frasi, pensieri, immagini relative all’uomo e alla sua famiglia, prelevate dal profilo Facebook e cucite sui giornali e sui siti di informazione con estrema nonchalance.
“È lui l’assassino di Yara” titolava due giorni fa “Repubblica”, dove l’attenuante salva-coscienza erano le virgolette che, formalmente, riportavano la frase di Alfano. Senza tergiversare troppo “Libero” aveva invece preferito il titolo “Preso l’assassino di Yara, mentre “Il Giornale”, legando insieme il caso Yara con il delitto di Motta Visconti, aveva sentenziato: “Schifezze d’uomini”. A non mettere in primo piano la foto del mostro, rinunciando al titolo che “tira” e piace ai lettori, erano stati solo il “Corriere della Sera” (che aveva inserito la foto dell’uomo solo sull’home page dell’online) e l’Unità.
“Un muratore che ama gli animali: ecco chi è l’assassino di Yara” è il titolo di oggi apparso sul “Messaggero”, fendendo l’involucro di quella vita privata, di quell’ “oikos” degli antichi, riservato e inviolabile. C’è proprio tutto della vita di Giuseppe Borsetti, sul quotidiano romano, dalla descrizione dettagliata del colore degli occhi (una sorta di intuizione fisiognomica da far invidia a Lombroso) alla rassegna degli scatti al mare che descrivono la famiglia, i bambini, il cane.
Nemmeno i bambini uccisi dal padre a Motta Visconti sono stati risparmiati dalla stampa che li ha immortalati, talvolta, in braccio alla madre. Dopo la confessione di Carlo Lissi, sul web era partita una gara alle notizie più strane relative alla pena riservata all’assassino. Dall’ergastolo alle punizioni corporali fino alla richiesta di ripristino della pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd e dal senatore Stefano Esposito.
A riordinare le schiere, a illuminare le coscienze dei professionisti dell’informazione, in merito ai reportage riguardanti gli ultimi fatti di cronaca di Motta Visconti e Brambate, è intervenuto anche il comitato esecutivo del Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti che ha ricordato ai colleghi il “rispetto del codice etico-deontologico, della Carta di Treviso, l’essenzialità dell’informazione e il rispetto della privacy. “Il Comitato invita i direttori e i colleghi a vigilare per evitare cronache dal buco della serratura, “agguati” sotto casa e al lavoro, immagini rubate” ribadisce il documento approvato all’unanimità dal Comitato esecutivo dell’Ordine.
Anche il presidente dell’Ordine dei Giornalisti, Enzo Iacopino, intervenendo sulla vicenda del presunto assassino di Brembate, ha lanciato parole dure, minacciando “di chiedere agli Ordini regionali di aprire procedimenti disciplinari nei confronti di chiunque abbia avuto comportamenti deontologicamente scorretti”. “I figli minori e la moglie dell’uomo, i suoi fratelli – gli uni e gli altri sicuramente innocenti e trasformati in vittime – la sua casa esposta senza alcun rispetto, quasi a innescare un nuovo turismo dell’orrore come avvenne ad Avetrana” sono descritti da Iacopino come episodi vergognosi.
La società della pietas e dell’umana solidarietà è decaduta da tempo. È l’epoca della corsa alla notizia, nel tentativo di “bruciare” i colleghi, e diffondere il titolo shok, ad ogni costo.
Samantha De Martin