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Con l'hashtag #MeTooUyghur
il movimento social
per la difesa degli Uiguri

Halmurat Harri a LumsaNews

“Non sono i genitori che conosco”

di Serena Console19 Febbraio 2019
19 Febbraio 2019

Halmurat Harri è un attivista uiguro naturalizzato finlandese. I suoi genitori sono stati detenuti in uno dei centri di “rieducazione” nello Xinjiang e ora sono agli arresti domiciliari. Ha lanciato un movimento via social. Hashtag: #MeTooUyghur.

Quando è iniziata la detenzione dei suoi genitori?

«La prima volta che saputo della detenzione di mia madre è stato ad aprile 2017. Mio padre mi aveva detto che gli assistenti sociali erano venuti a prenderla per inserirla in un programma di educazione. È strano: mia madre è pensionata ed è stata giornalista.
Ho fatto una serie di telefonate e mi è stato confermato che era in un centro di “rieducazione”, dove insegnano anche lingua cinese. Lei ha studiato all’Università di Pechino, quindi sa bene il cinese. A gennaio 2018 anche a mio padre è stato incarcerato».

Quali sono le accuse per la loro detenzione? 

«Non c’è alcun capo di accusa».

Quindi non hanno ricevuto un processo?

«No».

Quando sono stati rilasciati?

«Sono stati rilasciati il 24 dicembre 2018. Sono riuscito a mettermi in contatto con loro, ma abbiamo avuto una sola telefonata: loro erano in un ufficio della polizia locale, sotto controllo. Mi hanno confermato che non sono accusati di nulla e mi hanno detto che erano in un campo di educazione. Ma allora perché in 18 mesi di detenzione mia madre non ha potuto contattarmi?»

Pensa che i suoi genitori abbiano sofferto di depressione quando erano nei centri?

«Temo di sì e credo sia questo il motivo per cui erano sotto sorveglianza durante la telefonata. Credo anche che non mi abbiano detto molto per timore di ritornare nel centro. Tuttavia, durante la nostra conversazione mia madre ha provato a comportarsi in maniera normale, ma non ha pianto e si è comportata come un robot».

Ha avuto modo di chiedere loro cosa abbiano fatto nei centri?

«Non ho potuto farlo. E non volevo che potessero dire qualcosa di pericoloso per loro. Ma credo che abbiano subito maltrattamenti: non mi sono sembrati i genitori che conosco».

Ora i suoi genitori sono agli arresti domiciliari…

«Credo di sì, ma non possono utilizzare internet o social network. Ogni volta che vogliono parlare con me al telefono, devono andare a un ufficio della polizia. L’orario e il giorno della telefonata devono essere programmati. Abbiamo a disposizione una decina di minuti per parlare e c’è sempre un supervisore nell’ufficio durante la telefonata.
Ho saputo da un amico però che un poliziotto va più volte al giorno a controllare casa dei miei genitori. Per questo penso che stiano agli arresti domiciliari».

Ha paura di tornare in Cina?

«A causa del mio attivismo a livello internazionale, credo di essere finito nella blacklist del governo cinese».

Pensa possa migliorare la condizione nello Xinjiang con la pressione della comunità internazionale?

«Non penso possa migliorare e non penso cambierà qualcosa».

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