“I lavoratori intermittenti della musica sono stati lasciati indietro dallo Stato”. Demetrio Chiappa, fondatore del Centro studi doc e presidente di Doc servizi, la cooperativa più grande dello spettacolo in Italia, lancia l’allarme su un settore che rischia di perdere pezzi a causa del lockdown.
Sono i 200mila operatori del mondo dello spettacolo che avete censito?
«Sì. Dietro ogni artista ci sono centinaia di lavoratori. Per dire: a ogni grande evento ne corrispondono duecento, magari trecento, fra fonici, datori luci e altri. La maggior parte è raggruppata in cooperative, per normative previdenziali e di sicurezza sul posto di lavoro, oltre che per non andare in nero. Infatti, cambiando di volta in volta il committente, sarebbe molto più difficile gestire tutta la trafila burocratica da soli. E sì: questi professionisti, che abbiamo stimato in 200mila, lavorano a chiamata. Sono gli intermittenti, che non esistono solo in questo settore, ma che qui sono comunque molto in voga. Il loro lavoro ‘si accende’ – ovvero ricevono busta paga – solo in alcuni giorni, a volte anche col preavviso di 24 ore. E ciò vale anche per i musicisti di pianobar, per esempio. Il punto è che, tra l’altro, tutti questi lavoratori possono attivare al massimo trenta ‘chiamate’ l’anno».
E sono stati lasciati indietro?
«Non dalla politica, in realtà. Soprattutto a livello regionale ci si è mossi per dare loro l’indennità, la cassa in deroga. Tra l’altro, con un’eccezione: il sussidio avrebbe dovuto essere tarato sulla media dei guadagni degli ultimi due mesi, gennaio e febbraio, che però sono periodi ‘morti’; così si è considerata la media dei dodici mesi precedenti. Tutto risolto? No, perché poi a fine marzo si è messa di mezzo l’Inps, che eroga e che ha stabilito che la cassa in deroga si desse per le giornate ‘attive’ dei primi due mesi. Ma, come dicevo, se il limite di chiamate è 30, e gennaio e febbraio sono mesi morti, gli intermittenti avevano pochissime finestre già aperte – quattro, cinque sparse su nove settimane. E si è bloccato tutto. Senza contare che gli intermittenti saranno gli ultimi a ripartire, vista la situazione della musica dal vivo».
Non sarà facile andare avanti.
«Sarà lo stesso per le imprese del settore. Col decreto liquidità avranno prestiti garantiti dallo Stato a tasso zero (o poco più), ma ripartiranno comunque per ultime. E il problema, qui, è che necessiteranno quindi di restituire il denaro prestato molto più avanti, almeno in dodici anni, rispetto ai quattro prestabiliti. Tornando ai lavoratori, c’è bisogno che gli ammortizzatori coprano tutto il periodo di inattività. Si tratta di personale ampiamente qualificato: se non vengono sostenuti, cambiano mestiere, e quando si ripartirà ci troveremo senza gente competente che lavori per gli artisti. Sono contento, se non altro, perché tutte le associazioni di categoria stanno collaborando».
Sarà sufficiente?
«C’è molto da cambiare. Lo spettacolo non deve essere considerato divertimento, ma impresa culturale. Perché arricchisce cultura. Arricchisce l’anima: senza cinema o senza musica, non si cresce interiormente. Un’idea: i locali che fanno musica dal vivo andrebbero trattati come i cinema d’essai, con gli sgravi fiscali. Lo spettacolo è l’unica economia della cultura che non ha mai chiesto finanziamenti, ma ora ha bisogno di crediti di imposta e di aiuti, in generale, per la ripartenza».