Andrea Daniele Signorelli è un giornalista che si occupa di nuove tecnologie, politica e società. Collabora con La Stampa, Wired e altre testate. Con lui abbiamo parlato del ruolo dei social nella politica e dei “bavagli” imposti da alcuni governi autoritari.
I social sono validi mezzi di diffusione dell’informazione o rischiano di diffondere solo ciò che si vuole comunicare?
Questo è il tema delle filter bubble. Le piattaforme non sono neutre: sono costruite per mantenere per quanto più tempo possibile l’attenzione degli utenti e devono favorire contenuti coinvolgenti. Questo però non vuol dire che prima fossimo tutti propensi al dialogo o a cambiare idea. Esiste un concetto pre social che è il daily me: si riassume nella tendenza da parte di qualsiasi soggetto di cercare notizie, leggere giornali e circondarsi di persone con idee simili alle sue. Questa dinamica si è accentuata con i social e fa sì che non vengano più usati dai politici per ampliare il consenso ma per aumentare l’intensità da parte di chi il consenso già glielo da.
Alcuni politici arrivano ad attaccare e diffamare i propri rivali. Questo è ciò che ha portato Twitter a censurare alcuni tweet di Donald Trump in campagna elettorale. Si tratta di una lecita applicazione delle policy?
Io penso di si anche se non mi lascia del tutto a mio agio. Siamo in democrazia e siamo quindi tutti soggetti alle stesse norme. Nessuno si preoccuperebbe dell’espulsione del capo dell’Isis, invece con Trump (persona che ha comunque incitato una forma di terrorismo) tutti si preoccupano che sia stato privato del suo megafono social. Questo avviene perché, in fondo, è normale provare una certa forma di disagio. Io sono d’accordo al fatto che twitter abbia preso questa decisione perchè la situazione era drammatica e l’alternativa (lasciarlo indisturbato a incitare una sedizione) era peggiore. Dall’altra parte posso essere a disagio a pensare che una piattaforma privata abbia questo potere globale di mettere il silenziatore all’uomo più potente del mondo sulla base di decisioni che alla fine sono arbitraria. Bisognerebbe trovare una maniera che permetta alle piattaforme di essere gestite in maniera accettabile e democratica.
Ci sono casi in cui sono i social a subire la censura da parte di alcuni governi. Sono davvero così pericolosi come tali governi temono?
Qualunque governo antidemocratico teme la libera circolazione di informazioni e i social la permettono. I social non sono solo male, sono anche bene: abbiamo potuto conoscere il movimento Black lives matter anche grazie a loro. I governi autoritari quindi temono l’informazione libera e non filtrata che può dare vita al peggio del complottismo. In Cina o Ungheria, dare agli utenti la possibilità di usare dei social perfettamente incasellati nelle dinamiche di Stato come WeChat o altri strumenti è perfetto perché fornisce uno strumento di sorveglianza su ogni singolo cittadino. il social è uno strumento potente, il problema è come questo viene usato.
Le piattaforme social, in quanto aziende private, non possono fare nulla per contrastare le leggi di questi governi autoritari?
Il problema è che possono fare poco e hanno solo due possibilità: accettare la richiesta di uno Stato oppure andarsene e non scendere a compromessi. Cercare di contrastare l’imposizione delle leggi da parte di uno Stato legittimo non è fattibile. Quello che si può fare è solo rendere noto al mondo che determinati Stati stanno ponendo vincoli che per loro non sono accettabili. Da questo punto di vista le situazioni sono diverse: alcuni paletti sono stati accettati, come ad esempio in Germania dove sono vietati richiami al nazismo.