A soli due giorni dall’approvazione è già scontro sul nuovo Codice Antimafia. Le discussioni in realtà erano già iniziate in sede di approvazione parlamentare, ma ora che il codice è definitivamente legge, gli animi si sono nuovamente accesi.
Il Codice, che sostituisce quello del 2011, punta a velocizzare le misure di prevenzione patrimoniale, migliorare il controllo sulle infiltrazioni mafiose nelle aziende, rendere più trasparente la scelta degli amministratori giudiziari e ridisegnare l’Agenzia per i beni sequestrati.
Ma l’aspetto più rilevante riguarda l’inclusione di corrotti, stalker e terroristi tra i possibili destinatari dei provvedimenti. Con il nuovo Codice, in pratica, potranno essere sequestrati i beni di chi è anche soltanto sospettato di fare parte di un’associazione a delinquere finalizzata a corruzione propria e impropria, corruzione in atti giudiziari, concussione e induzione indebita. Come per i reati mafiosi, anche nel caso di quelli contro la pubblica amministrazione, perché sia disposta la confisca dei beni, l’indiziato deve essere giudicato socialmente pericoloso e deve essere riscontrata una disponibilità di beni incompatibile con il suo reddito. Non è però necessario che la persona a cui vengono sequestrati i beni sia stata condannata.
Ed è proprio sull’equiparazione dei reati contro l’amministrazione pubblica a quelli di associazione mafiosa che si sono scatenate molte polemiche. I primi a scagliarsi contro il Codice sono stati gli esponenti di Forza Italia. Renato Brunetta ha dichiarato che “quest’estensione del penale a reati che nulla hanno a che fare con la criminalità mafiosa o con quella economica è inaccettabile”. Critici anche i Cinque Stelle, secondo cui il testo previsto dal Codice è un “vero e proprio compromesso a ribasso”.
Anche all’interno del PD le varie anime del partito si sono scontrare sul tema. L’ala renziana sembra essere a favore di una modifica del Codice. Matteo Orfini, infatti, ha commentato così: “L’equiparazione tra corruzione e mafia è sbagliata. Quell’articolo di un testo, per il resto assolutamente positivo, è una forzatura, un cedimento a una visione giustizialista del diritto, abbastanza incompatibile con i principi a cui dovremmo ispirarci”. A difendere il Codice, invece, scende in campo Pietro Grasso. Il presidente del Senato avverte: “Se si tratta di valutarne l’applicazione, nessun problema, se però arriva un decreto che tra due settimane cambia la legge allora sarebbe un boomerang per le forze politiche che l’hanno approvata”. Ricordando che il Codice è nel programma del Partito Democratico, Grasso ha voluto rassicurare chi teme un’ondata giustizialista: “Le misure di prevenzione – spiega – si applicano quando si tratta di un sistema corruttivo, quando c’è una rete e una reiterazione delle condotte, perché si tratta di bloccare i soldi che finiscono nei paradisi fiscali e poi non si trovano più”.
Ma le polemiche non arrivano solo dal mondo politico. A scagliarsi contro il nuovo Codice arriva anche Sabino Cassese. L’ex giudice della Corte Costituzionale spiega che “la riforma del codice antimafia è palesemente anticostituzionale. Si può essere sicuri che la norma sarà giudicata negativamente dai giudici europei e dalla Corte Costituzionale”.
Polemiche a parte, non è comunque certo che la tanto discussa equiparazione dei reati comuni a quelli mafiosi rimarrà legge. È stato approvato, infatti, un ordine del giorno che stabilisce che il Governo sarà tenuto a controllare come sarà applicata la norma per poi eventualmente cambiarla se non dovesse funzionare.