Cinquant’anni fa, il 21 ottobre del 1969, moriva Jack Kerouac. Fu simbolo della Beat Generation, il movimento che negli anni 50 si affermò come un’onda anomala sull’arte e sulla letteratura americana. Il suo corpo venne ritrovato in una casetta a St. Petersburg, in Florida, dove si era trasferito per fuggire dalle città affollate e dalle luci del successo.
Una morte solitaria, figlia dell’alcool e degli eccessi che l’autore si era concesso nel corso della vita.
Kerouac era conosciuto come il “vagabondo errante” o il “clericus vagans”, ma dietro i suoi viaggi si nascondeva un’anima silenziosa e introspettiva.
Quando non viaggiava rimaneva a casa vicino a sua madre, la sua “memere”, chiamata così nella sua opera principe “On The Road”. “Sulla Strada”, appunto, è la sintesi della sua vita trascorsa tra la Route 66 e gli angoli nascosti degli Stati Uniti.
Ann Chartes, autrice della sua biografia, parla di lui come di un uomo che non riusciva a fare a meno dell’asfalto dove poggiare i piedi, l’unico modo per restare a terra fuggendo dalla confusione della contemporaneità.
Jack Kerouac, insieme ad Allen Ginsberg e Lawrence Ferlinghetti, si fece portatore delle istanze di una gioventù nascosta, definita “ribelle e bruciata” dai critici dell’epoca ma piena di vita per gli esponenti della Beat Generation. Una vita che per Kerouac si traduceva negli “Autobus americanos”, nelle scritte a Chicago e New York, nei libri e nei caffè dimenticati sul bancone, gli stessi che l’autore amava descrivere nel suo “On The Road”.
In un’intervista rilasciata alla giornalista Fernanda Pivano disse di essere un “giovane nostalgico e malinconico”, esattamente come i ragazzi figli della Beat Generation, che si ispirarono a lui per fuggire dall’alienazione.