“Non voleva farmi male. Sono scivolata. Non è colpa sua, è colpa mia”. Sara (nome di fantasia) per anni ha giustificato le azioni di un marito violento. “All’inizio era premuroso e affettuoso, poi sono iniziate le liti, le spinte, le urla – racconta a Lumsanews -. Quella mano che prima mi accarezzava dolcemente, all’improvviso è diventata un’arma per farmi del male. Tornava a casa la sera e avevo paura. Speravo che la giornata fosse andata bene e che non fosse nervoso perchè altrimenti sapevo che se la sarebbe presa con me. Nonostante tutto non sono mai riuscita a lasciarlo e non riesco a fare a meno di lui”.
Secondo lo studio Ipsad, condotto dall’Istituto di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche, Sara è una delle 12 milioni di donne che hanno subìto almeno una volta nella vita un episodio di violenza fisica o psicologica. Di queste solo cinque su cento hanno denunciato.
Per molte, infatti, è difficile chiedere aiuto. “Alcune volte la vergogna ti blocca, altre volte invece sei così stufa che decidi di reagire”, spiega Teresa Dattilo, psicologa e presidente dell’associazione “Donna e politiche familiari”. Sono proprio associazioni come questa che guidano i cosiddetti centri antiviolenza, che aiutano le donne in difficoltà. Come “Differenza donna”, che gestisce 14 centri antiviolenza grazie ai quali riesce a offrire supporto “a tutte le donne, anche migranti, sopravvissute alla violenza maschile e alla tratta a scopo di sfruttamento sessuale e lavorativo”, come spiega una delle responsabili Alessia D’Innocenzo, anche a capo del centro “Alessia e Martina Capasso”.
Una rete di supporto
I centri antiviolenza (Cav) sono luoghi in cui vengono accolte le donne che hanno subìto violenza fisica o psicologica. Spazi autonomi gestiti da donne per le donne, nati dall’esperienza dei movimenti femministi degli anni ‘60 e ’70. “Un servizio pubblico considerato un nodo di quella rete volta a contrastare la violenza maschile contro le donne”, chiarisce D’Innocenzo.
Il primo contatto di solito avviene telefonicamente e dopo una prima valutazione viene fissato un colloquio individuale per studiare, insieme a delle esperte, un percorso personalizzato. Inizia così un cammino di ascolto e accoglienza, di aiuto psicologico, supporto legale e orientamento al lavoro. “Questi sono solo alcuni dei servizi che possiamo offrire con l’obiettivo di aiutare le donne a superare il trauma e di proteggerle, per costruire un nuovo futuro per sé e per i loro figli”, continua D’Innocenzo.
Secondo gli ultimi dati diffusi dall’associazione D.i.Re, Donne in Rete contro la violenza, in Italia ci sono 108 centri, distribuiti su tutto il territorio nazionale, fatta eccezione per il Molise. Oltre la metà, 57, pari al 54% del totale, si trovano nel Nord Italia; nelle regioni del Centro ce ne sono 23, il 22% del totale, mentre tra Sud e isole se ne contano 25. A essere accolte sono state complessivamente, nel 2022, 20.711 donne. Di queste 14.288 hanno chiesto aiuto per la prima volta. Numeri sostanzialmente stabili rispetto all’anno precedente (14.565 nel 2021).
I finanziamenti e il ruolo della sensibilizzazione
Questi centri sopravvivono grazie al volontariato e a risorse economiche che provengono sia da soggetti pubblici che privati. I finanziamenti pubblici arrivano dai Comuni e dalle Regioni con cifre che si aggirano intorno ai 95.000 euro annui, sempre secondo quanto riportato dall’Associazione D.i.Re. Per quanto riguarda i finanziamenti privati, invece, si registrano cifre minori, circa 32.700 euro all’anno (quasi 44.000 nel 2021), mentre ammontano a circa 2.900 euro annui i fondi provenienti dall’ autofinanziamento.
“Purtroppo non sono abbastanza per far fronte alle tante spese che abbiamo”, spiega Alessandra Balla, responsabile comunicazione del Telefono Rosa che gestisce cinque centri antiviolenza. Dello stesso parere è Teresa Dattilo: “Mancano i finanziamenti, senza i quali non si può fare soprattutto la giusta sensibilizzazione”. Sensibilizzare, infatti, è una delle parole chiave per spingere le donne a chiedere aiuto.
Come ha fatto Francesca (nome di fantasia), che dopo anni di violenze è riuscita a dire basta. Un basta che le ha cambiato la vita, grazie all’Associazione “Donna e Politiche familiari”. “Dopo la nascita di nostra figlia è iniziato il mio calvario, perché mio marito era geloso del tempo che dedicavo a lei – racconta -. Ho giustificato botte, pugni e calci, ma quando mi ha minacciato di morte davanti alla bambina ho deciso di non giustificarlo più. Così ho chiesto aiuto all’associazione che mi ha aiutata nel mio percorso di rinascita. La mia vita ha ripreso senso. Ho denunciato e adesso sono una donna nuova”.