Cento anni fa, il 21 gennaio 1921, nasceva il Partito Comunista italiano. Un evento traumatico, provocato dalla scissione durante il Congresso socialista di Livorno, quando la corrente “comunista” guidata da Amedeo Bordiga decide di abbandonare il Partito Socialista italiano, in polemica con il rifiuto opposto della maggioranza del partito all’espulsione dei riformisti di Filippo Turati, come richiesto dalla Terza Internazionale di Lenin.
La nuova formazione politica si caratterizzerà in origine per una netta scelta di campo: la lotta per arrivare alla dittatura del proletariato attraverso la carta dell’insurrezione. Avendo come stella polare la Rivoluzione russa dell’ottobre del 1917, il Partito Comunista d’Italia rifiuterà in origine qualunque dialogo con le altre forze politiche della sinistra, ritenendole “tutte ugualmente al servizio della borghesia”.
Bordiga, primo segretario del PCd’I in carica dal 1921 sino al 1923, ritiene prioritario organizzare la rivoluzione, anziché contrastare il fascismo ormai dilagante e sostenere gli “Arditi del Popolo”, il gruppo armato del tenente Argo Secondari, fatto di anarchici, socialisti, mazziniani, che tentano di fermare le violenze delle camicie nere. Pur favorevole “a ogni compromesso per fermare le orde della reazione nera,” anche il successore di Bordiga, l’intellettuale sardo Antonio Gramsci “ha comunque un pensiero rivoluzionario” – come spiega a Lumsanews lo storico Francesco Perfetti – “non essendo in lui presente alcuna traccia di riformismo.”
La prima svolta in senso democratico avviene nel 1944. In un primo momento Palmiro Togliatti, segretario dal 1926, prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, aveva definito “Giustizia e Libertà” dei fratelli Rosselli un “movimento fascista dissidente” e – sotto lo pseudonimo “compagno Ercoli” – liquidato gli anarchici nella guerra civile spagnola per ordine del dittatore sovietico Josip Stalin. Ma tornato da Mosca nel 1944, con il nuovo “Partito Comunista italiano”, insieme a Democrazia cristiana, liberali, socialisti e azionisti, contribuirà a scrivere la più bella pagina di democrazia dopo vent’anni di dittatura fascista: la Costituzione repubblicana, tuttora in vigore dal 1948.
Fedele a Mosca, ma aperto allo Stato costituzionale e al pluralismo partitico, il nuovo PCI vota per il riconoscimento dei Patti Lateranensi in Costituzione, per l’amnistia agli ex fascisti, blocca un’insurrezione dei suoi militanti nel 1948 dopo l’attentato fallito di Antonio Pallante a Togliatti e, in seguito, sposa la linea di fermezza contro il terrorismo rosso come nel caso Moro. Ma è anche il partito che accusa il reprobo Tito di tradimento, giustifica i carri armati sovietici a Budapest nel 1956 e chiama “fascisti” gli esuli istriani in fuga dalle loro case. In questo consiste l’accusa di “doppiezza” del Pci: la duplice appartenenza all’Italia democratica, di cui era stato uno dei padri fondatori, e al mondo del socialismo reale, di cui era il membro più prestigioso d’occidente.
Quello tra Urss e Pci è un rapporto complesso, che vede una prima incrinatura con il “Memoriale di Yalta”, lasciato proprio da Togliatti alla sua morte nel 1964, in cui si rivendica il diritto a una via italiana al socialismo, senza ingerenze da parte dell’Urss. Il nuovo segretario Luigi Longo accentuerà le distanze, condannando esplicitamente l’invasione sovietica di Praga nel 1968, sino ad arrivare a Enrico Berlinguer, diventato segretario nel 1972, che dirà di preferire “la Nato al Patto di Varsavia”.
Un’ambiguità che sembra allentarsi nel tempo, ma mai del tutto. L’Unione Sovietica sarà a lungo uno dei principali finanziatori del Pci, “che predicava la democrazia ma prendeva soldi da Mosca per la sua attività”, come dice l’editorialista de La Stampa Marcello Sorgi. Doppiezza sino alla fine, ma mai nel senso di praticare la democrazia e preparare la rivoluzione. Nel partito ci sono, soprattutto negli anni ’50 e ‘60, estremisti alla Pietro Secchia, ma “né Togliatti, né Longo, né Berlinguer – continua Sorgi – pensano di fare seriamente la rivoluzione. Proprio il PCI è nemico di tutte le pulsioni radicali, quando è nato il Movimento studentesco nel ‘68”.
Il partito di Enrico Berlinguer persegue la “terza via”, un contenitore che l’ala di Pietro Ingrao cerca di individuare in una fuoriuscita a sinistra dallo stalinismo, mentre l’ala destra “migliorista” tenta di agganciare una prospettiva socialdemocratica. Tra lotta per la “questione morale” e apertura a generici contenuti progressisti, a rimanere salda fino al 1989 è soprattutto l’organizzazione del partito inteso come comunità. Luoghi di studio, formazione politica ma anche di incontro e socialità, le sezioni, le feste de L’Unità e la scuola di partito diventano quella macchina organizzativa che – come dice lo storico Giovanni Sabbatucci – “costituisce il vero scopo del gruppo dirigente che difende, perpetua e accresce la propria comunità, mentre lascia pensare, temere, sperare al di fuori che ci possa essere anche l’esito rivoluzionario”.
“Potentissimo ma implicito condizionamento sulle conquiste sociali dell’Occidente”, ribadisce a Lumsanews l’ex segretario della Rifondazione Comunista, Fausto Bertinotti, con il crollo dell’URSS si spegne anche la scintilla del 1921, la carica rivoluzionaria sempre presente, anche se latente, nel PCI, lasciando una doppia eredità, tutta giocata intorno al binomio organizzazione-ideale.
Per la maggioranza, riunita nel “Partito democratico della Sinistra” che ha ritenuto inscindibili rivoluzione e socialismo, la solida e strutturata macchina di un partito che “ha prodotto – rimarca Sorgi – dirigenti del calibro di Massimo D’Alema, Piero Fassino e Walter Veltroni, protagonisti di un’intera stagione di governo”, oltre che amministratori e sindaci. Alla minoranza invece, che ha ritenuto – per dirla con Bertinotti – non solo compatibili ma anche inscindibili democrazia e socialismo, l’idea di una società di liberi e uguali”.