Più di una battaglia persa durante la guerra. Più di una pesante sconfitta militare. Caporetto è ricordata come la madre di tutte le disfatte. La dodicesima battaglia dell’Isonzo, cominciata il 24 ottobre 1917, si trasformò fin da subito in una rotta disordinata, venendo avvertita da molti come una debacle irrimediabile. L’eco della vicenda si è trascinato per anni tra coloro che, all’epoca, vedevano nel conflitto una prova necessaria per il consolidamento dell’identità nazionale. Insomma, come se Caporetto potesse minacciare la sopravvivenza dello Stato unitario.
A cento anni dall’accaduto risultano ancora evidenti le dimensioni del disastro. La manovra degli austro-tedeschi aggirò abilmente l’esercito italiano, il cui schieramento sull’alto Isonzo era già stato colpito. Tutto ciò avvenne nei pressi di Caporetto, oggi Kobarid sulla cartina slovena. Il ripiegamento delle truppe della III Armata fu inevitabile. Gli italiani vennero messi in fuga, certificando la sconfitta sul campo di battaglia. Oltre 10.000 i chilometri quadrati di territorio abbandonati, più di 40.000 le vittime, 300.00 i prigionieri, 600.000 profughi civili e innumerevoli quantità di materiali dispersi. Numeri impressionanti. Solo il 9 novembre il generale Luigi Cadorna riuscì a compiere la sua ultima manovra, portando lo schieramento difensivo sulla linea del Piave.
Nel bollettino del 27 ottobre 1017 Cadorna ipotizzò il tradimento di alcuni reparti, “vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico». Timori che non trovarono riscontro nella realtà. Sotto accusa, invece, finirono i comandi, non solo dal punto di vista degli errori tecnici, ma anche sotto il profilo delle scelte e delle strategie. Disattenzioni grossolane e prevedibili, che trasformarono una sconfitta in una disfatta.