“Il tutto nasce da una finta ricerca di uno psicologo inglese che ha chiesto a 270 mila utenti di Facebook il consenso per partecipare ad un questionario. Per accedere al test le persone hanno dovuto usare le loro credenziali di Facebook. Così attraverso questo tipo di ingresso lo psicologo, dietro il quale si nasconde la Cambridge Analytica, ha avuto accesso a tutti i dati degli amici degli utenti sottoposti al test. Ecco come si è arrivati a 50 milioni di persone. Poi, attraverso analisi di big data, la società ha fatto profilazione per condurre proprie indagini”. Così l’avvocato Alessandro del Ninno, specializzato in Data Protection, spiega qual è lo scandalo alla base del caso Cambridge Analytica.
Che colpa ha Facebook?
“L’azienda statunitense ha una responsabilità omissiva. La società aveva scoperto il metodo di sottrazione di dati nel 2015. Dopo la scoperta aveva fatto un intervento di rafforzamento della privacy del social senza però avvertire gli utenti sull’accaduto. Bisogna sottolineare però che non c’è stata nessuna violazione di dati dal punto di vista tecnico perché non si è verificata una violazione di sicurezza dell’infrastruttura che il social usa”.
Può essere sanzionata secondo la disciplina europea?
“Se fosse applicabile il regolamento generale sulla protezione dei dati che entrerà in vigore il 25 maggio 2018 Facebook sarebbe perseguibile. Il regolamento stabilisce che se un soggetto ovunque nel mondo tratta dati di persone che si trovano nell’Unione Europea per monitorarne il comportamento su internet, deve rispettare il regolamento. Quindi se tra questi 50 milioni di utenti ci fossero profili di persone che si trovano nell’Unione Europea, l’azienda statunitense potrebbe essere punita con sanzioni pari al 4% del suo fatturato mondiale”.
Come possono tutelarsi gli utenti?
“Innanzitutto è opportuno sottolineare che la colpa primaria della violazione della privacy è degli utenti perché non conoscono con esattezza quali impostazioni utilizzare sui social per tutelarsi e accedono alle applicazioni con poca attenzione. Quindi ci si può difendere con una maggiore consapevolezza. È ovvio però che le istituzioni preposte dovrebbero fare campagne informative”.