Mezzo secolo di vita. L’Ordine dei giornalisti celebra i 50 anni di storia. «Ci sono uomini che per la loro profondità hanno la capacità di guardare più lontano degli altri. Lungo questo cinquantennio alcune persone hanno lasciato il segno». Lo ha affermato Enzo Iacopino, il presidente dell’Ordine dei giornalisti, ieri durante la giornata celebrativa, evocando il nome di Guido Gonella, ministro di Grazia e Giustizia nel 1959 che presentò alla Camera il disegno di legge sull’ordinamento della professione giornalistica. Già qualche anno prima, nel 1953, vi fu un primo tentativo, poi non andato in porto, con un disegno di legge presentato da Aldo Moro. Ma le ripetute sollecitazioni della Federazione della stampa, in particolare i documenti approvati al Congresso di Sorrento del 1962, impressero ai lavori della Commissione un ritmo più accelerato, tanto che il disegno di legge fu approvato all’unanimità e con il voto favorevole di tutti i gruppi della Camera in sede legislativa dalla Commissione il 12 dicembre 1962, cinque giorni dopo fu trasmesso alla presidenza del Senato. Così il disegno di legge fu esaminato dalla Commissione del Senato e in una sola seduta, il 24 gennaio 1963, ottenne l’approvazione definitiva. La legge 69 fu poi promulgata dall’allora presidente della Repubblica, Antonio Segni, il 3 febbraio 1963. Il primo presidente dell’Ordine fu proprio il democristiano Guido Gonella. Un percorso storico dal quale emerge con chiarezza una continuità ideale tra il periodo prefascista e quello post-fascista. Il fascismo istituzionalizzò solo l’Albo ma per una finalità ben precisa: controllare con i suoi prefetti e le loro commissioni chi era autorizzato a scrivere. L’Albo, durante la dittatura di Mussoli, fu strumento di regime, l’Ordine è qualcosa di molto diverso cioè un mezzo di autogoverno della categoria, una forma di autodisciplina della professione realizzata con organismi eletti liberamente e democraticamente.
Ordine sì, Ordine no. Ma sin dalla sua istituzione e anche recentemente è stata posta in discussione la legittimità costituzionale dell’Ordine, impedendo agli altri cittadini di manifestare liberamente il proprio pensiero, la cui esistenza comporterebbe una lesione del diritto garantito dall’articolo 21 della Costituzione. Ma la Suprema Corte, chiamata ad esprimersi in tal senso, non ha riscontrato tale lesione e nemmeno un referendum popolare proposto dai radicali nel 1997, che tendeva all’abolizione proprio dell’Ordine dei giornalisti, ha ricevuto il consenso dei cittadini. Il quorum non fu raggiunto, votò soltanto il 30% degli aventi diritto. A favore dell’Ordine, e quindi per il no al referendum, era uno dei più noti giornalisti italiani, Indro Montanelli che dalle colonne del Corriere della Sera scriveva: «Per l’Ordine mi batterò perché non vedo il motivo di interpellare il popolo sull’opportunità di abolire qualcosa che non costa nulla, almeno credo». Undici anni dopo l’insuccesso dei radicali, nel 2008, partì una nuova raccolta firme per un nuovo referendum contro l’Ordine, i sussidi pubblici all’editoria e la legge Gasparri sul sistema radiotelevisivo. Ad organizzarlo stavolta fu Beppe Grillo ma nessuno dei tre quesiti referendari ha raggiunto il numero di firme necessario.
Un bisogno di rinnovamento. Ma andando oltre gli schieramenti, Ordine sì, Ordine no, da tempo si avverte dai più parti la necessità di una riforma organica che preveda nuove regole per l’accesso e una maggiore qualificazione, non solo culturale, dei giornalisti. Ma come sostiene lo stesso segretario del Consiglio nazionale dell’Ordine, Giancarlo Ghirra, «il sonno della politica e l’inerzia del Parlamento spinge l’Ordine dei giornalisti verso una deriva burocratica. Occorre tuttavia un incrollabile ottimismo per sperare in una svolta».
Un invito al rinnovamento è giunto anche dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il quale ricevendo una delegazione dell’Ordine dei Giornalisti in occasione dei 50 anni, ha rilevato che «tutto è cambiato nel mondo della comunicazione, e i giornalisti rischiano di pagare le conseguenze di un mancato adeguamento delle norme alla realtà».
Alessandro Filippelli