Durante lo scorso mese di febbraio il presidente di Nissan Europe, Gianluca de Ficchy, aveva annunciato che la casa automobilistica giapponese avrebbe interrotto la produzione del suo Suv X-Trail nello stabilimento di Sunderland in Gran Bretagna, la più grande fabbrica Nissan del vecchio continente. “Abbiamo scelto di prendere questa decisione per motivi legati agli affari: la continua incertezza nelle relazioni fra Regno Unito ed Unione Europea non aiutano aziende come la nostra nella pianificazione del proprio futuro”, aveva commentato de Ficchy attraverso una nota stampa. Dieci giorni dopo Steven Armstrong, presidente di Ford per Europa e Medioriente, durante una conference call con la prima ministra inglese Theresa May, comunica che in caso di una hard Brexit, il gruppo americano sarebbe pronto a lasciare i propri punti di produzione nel Regno Unito.
Passano pochi giorni e sull’esempio di Ford, anche Toyota e BMW annunciano che in caso di divorzio senza accordo, le loro linee produttive potrebbero smettere di funzionare al di là della Manica. BMW, si dice, avrebbe già individuato in Olanda un sito di produzione alternativo a quello di Longbridge, periferia di Birmingham, dove, paradosso, i tedeschi producono la più inglese delle automobili: la Mini. Il 18 febbraio poi, anche Honda annuncia che entro il 2021 chiuderà il suo stabilimento di Swindon, 100 km da Londra e 3500 posti di lavoro a rischio. Una fabbrica che era stata aperta nel 1989 e che solo l’anno scorso ha prodotto oltre 150 000 autovetture. Ufficialmente la Honda intende riportare entro i confini nazionali buona parte delle linee produttive sparse per l’Europa, dove i balzelli legati alla costruzione di vetture inquinanti sono diventati gravosi, ma tant’è, questo è l’unico provvedimento preso fin ora in tal senso dall’azienda nipponica.
Potrebbe non essere un caso, anche perché a dicembre Giappone e Ue hanno ratificato il più grande trattato commerciale nella storia dell’Unione, l’Economic Partnership Agreement (EPA), che abbatterà i limiti doganali e normativi che ancora impediscono alle aziende giapponesi di essere competitive nel vecchio continente, alla pari delle concorrenti europee. Lapalissiano il fatto che produrre nel Regno Unito significherebbe per il Giappone costi di produzione molto più elevati, a causa dei dazi, ma anche dei costi in termini di tempo perso nei passaggi alle dogane per entrare in Europa. È l’effetto Brexit, quello che porta il Giappone, il paese che dopo gli Usa è il più grande partner commerciale di Londra, con investimenti in Gran Bretagna per oltre 50 miliardi di sterline, a lasciare il Regno Unito per approdare sulla terra ferma del continente, come hanno già fatto anche grandi gruppi che non si occupano di automotive, come Sony, Dyson e Panasonic.
In Europa
Il sistema economico inglese rischia un contraccolpo notevole dalla Brexit e non solo per la fuga degli investitori stranieri. “Molte importazioni provenienti dall’Unione Europea rappresentano input per le fasi successive e i dazi doganali sulle importazioni si trasformano in incrementi di costi per la produzione dei beni finali. Il risultato complessivo sono prezzi più elevati e perdita di competitività per tutti i partecipanti alla filiera globale”, ci spiega Stefania Cosci, professoressa ordinaria di Economia Politica della Lumsa di Roma.
La perdita di un rapporto commerciale privilegiato con i restanti stati dell’Unione si abbatterebbe violenta sul sistema produttivo di Londra, e in misura minore, ma consistente, sulla stessa economia europea. La Reuters ha calcolato sui dati forniti dal Fondo Monetario Internazionale, che l’Ue perderebbe con una Brexit “no deal” 221,13 miliardi di euro e oltre un milione di posti di lavoro. Un danno ingente ma tutto sommato contenuto rispetto alla perdite a cui si esporrebbe l’economia del Regno Unito, che secondo uno studio dell’università di Rotterdam, sarebbe 4,6 volte superiore alla media degli altri stati europei. Londra rischia di veder calare il proprio Pil del 12,2%. “Basta leggere Boris Johnson, il quale immagina un futuro “lacrime e sangue” alla Churchill che però consentirà ai Britanni di tirar fuori tutto il loro valore” spiega Leopoldo Nuti, ordinario di Storia delle Relazioni Internazionali all’Università di Roma Tre. “È probabile che i sostenitori della Brexit pensino di poter trasformare il Regno Unito in una sorta di gigantesco hub della finanza mondiale, libero da lacci e vincoli europei, che ne consentirà la ripresa economica”. L’altra vittima sacrificale immolata sull’altare di una uscita senza condizioni è Dublino, che perderebbe la decima parte del Pil. Nel continente i paesi più colpiti sarebbero la Germania (-5,48%) e l’Olanda (-4,39%).
In Italia
In Italia invece i danni potrebbero essere più contenuti. Attualmente le nostre aziende vendono nel Regno Unito beni per 23 miliardi di euro (fonte: Ministero degli Affari Esteri), e a farla da padrone sono tradizionalmente i prodotti dell’agroalimentare, che contribuiscono per circa il 15% al totale delle esportazioni. Senza accordi tra le parti, il Pil italiano calerebbe di uno 0,55%, una perdita economica vicina ai 10 miliardi di euro annui. Potrebbe esserci però anche il risvolto della medaglia, perché in caso di Brexit le aziende straniere che abbandonano la Gran Bretagna, potrebbero essere invogliate a investire nel nostro paese, con un aumento del prodotto interno lordo di 5,9 miliardi di euro secondo il Centro Studi di Confindustria. Dallo studio emerge tuttavia che l’Italia non sarebbe pronta ad accogliere i possibili investitori a causa di una burocrazia farraginosa, di strutture economiche e finanziarie poco competitive rispetto agli altri concorrenti europei e delle tendenze euroscettiche del governo a guida Lega e Movimento 5 Stelle.
Un cuscinetto di sicurezza
Uno scenario di questo tipo ha indotto la Commissione europea a correre ai ripari per cercare di limitare l’impatto di una uscita senza condizioni del Regno Unito dall’Unione. Il 13 marzo il Parlamento europeo ha approvato una serie di disposizioni proposte dalla Commissione, che garantiscono la continuità di attività e servizi essenziali, che rischierebbero di venire meno in caso di no deal. Uno di questi riguarda la reciproca possibilità per i pescherecci europei e britannici di usufruire di quote pesca al di fuori delle aree di competenza rispettivamente inglesi o comunitarie. Saranno inoltre facilitate le procedure per richiedere le autorizzazioni necessarie per pescare in acque territoriali straniere. In tema di sicurezza sociale l’Unione adotterebbe un regolamento che garantirebbe l’accesso ai diritti previdenziali, come l’esportabilità delle prestazioni in denaro – pensiamo ad esempio a coloro che percepiscono nel Regno Unito una pensione maturata in Europa e viceversa – o l’accesso ai servizi sanitari. Misure di emergenza consentiranno alle compagnie di trasporto di evitare interruzioni nello spostamento di merci su strada e autobus. È stata poi estesa l’autorizzazione alle compagnie aeree inglesi di operare anche al di qua della Manica. Nella prospettiva di un riallineamento dei collegamenti tra l’Irlanda e il continente, necessari per il venir meno degli snodi intermedi presenti in Gran Bretagna, il Parlamento ha chiesto l’istituzione di un fondo europeo necessario all’adeguamento delle nuove connettività, che renderebbe più facile per merci e persone varcare la frontiera tra Unione e Regno Unito. Porti strategici come quelli francesi di Brest, di Roscoff, di Cherbourg e di Boulogne potrebbero vedere il traffico di merci aumentare e ricevere così maggiori risorse dalle istituzioni europee.