“Scusami posso chiederti una sigaretta?”. E poi via con calci, pugni, lanci di bottiglie e violenze di gruppo. Il modus operandi è quasi sempre lo stesso, gli obiettivi cambiano di volta in volta. È questo il comune denominatore delle baby gang, vera e propria piaga adolescenziale che negli ultimi anni ha messo a repentaglio la sicurezza di molte città italiane. Si tratta di un fenomeno in continua evoluzione e in molti si chiedono le ragioni di questa escalation violenta senza però giungere a una conclusione.
Il tratto distintivo, in primis, è la giovane età dei componenti delle gang, quasi sempre minorenni. “L’età media va dai 15 ai 18 anni”, conferma a Lumsanews il Comandante di Compagnia dei Carabinieri di Monza, Emanuele D’Onofri. E gli ultimi dati registrati dall’Osservatorio nazionale sull’adolescenza, sembrano certificare che il fenomeno riguarda principalmente i più piccoli. Il 6,5% dei minorenni italiani, infatti, fa parte di una banda e il 16% ha commesso atti vandalici. Solo nel 2021 le denunce a carico di minori sono state ventimila.
Un quadro preciso e allo stesso tempo preoccupante. “In alcuni casi accade che i più grandi sfruttano i minori perché sono meno perseguibili dalla legge italiana”, spiega la psicologa e docente al Master in Psicologia dello Sport di Milano Samantha Vitali. Un altro fattore sorprendente è che questi gruppi si aggregano indipendentemente dal loro quartiere di appartenenza. Il fenomeno delle baby gang non ha niente a che fare con la classe sociale d’appartenenza e sembra resistere a ogni tipo di disuguaglianza. A confermarlo è anche la Questura di Roma che sottolinea come si tratti di bande eterogenee, in cui c’è una totale integrazione tra italiani e stranieri (per lo più nordafricani e sudamericani). Un’assoluta novità è poi il ruolo attivo delle ragazze, che partecipano ai pestaggi o fungono da esca per innescare le risse. Da Milano a Roma, da Parma a Firenze la situazione appare fuori controllo.
Proprio per questo in alcune città sono stati presi dei provvedimenti speciali per cercare di frenare questa escalation violenta. A Roma, dopo i pestaggi e le aggressioni delle scorse settimane, è stato convocato il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. Nella Capitale la situazione sembra essere fuori controllo. A confermarlo è l’ultimo episodio andato in scena nel quartiere di Casal Monastero nella notte tra il 21 e il 22 marzo, quando madre e figlio sono stati stuprati da due tunisini di 16 e 17 anni. Si cerca poi di evitare che le baby gang possano trasformarsi in un qualcosa di più grande. “Fortunatamente dietro non c’è una struttura criminale che li indirizza”, sostiene D’Onofri, ma la paura che vengano sfruttate da associazioni a delinquere di stampo mafioso è un rischio reale che non si può sottovalutare.
Il fattore più preoccupante è quello di non riuscire a capire la ragione da cui scaturiscono questi comportamenti. Dietro ai pestaggi e alle violenze di questi gruppi di ragazzini si nascondono profonde difficoltà relazionali, questo è chiaro. Ma allora perché queste manifestazioni violente sono emerse solo negli ultimi anni? Perché far parte di una banda di microcriminalità è considerato un vanto? “Sicuramente esiste una mancanza di supporto alla crescita da parte della famiglia, un contesto familiare di trascuratezza emotiva”, osserva Samantha Vitali. Tale idea è sostenuta anche da Massimo Camilli, responsabile della Comunità per minori “Giovanni Paolo I” di Roma, che aggiunge: “La causa principalmente è l’incapacità di costruire relazioni in modo sano. Quindi, data questa incapacità, si formano unioni di gruppo basate sulla violenza e non su sentimenti sani”. Secondo entrambi, però, c’è un elemento che ha cambiato radicalmente la violenza e la continuità con cui agiscono le baby gang: il Covid.
Il lockdown ha generato una serie di difficoltà relazionali che si sono poi riflesse sui giovani più fragili. “L’esplosione di questo fenomeno – sottolinea Vitali – si è avuta subito dopo la pandemia. La frustrazione legata all’isolamento obbligatorio di questi due anni e la mancata possibilità di poter trasgredire, che costituisce un elemento fondamentale in quel momento della vita, ha provocato una reazione scaturita in questi comportamenti. Non è stato così per tutti: c’è chi ha riversato questa frustrazione dentro di sé incappando in depressione, ansia o disturbi alimentari e chi appunto l’ha riversata verso l’esterno, come forma di odio verso la società”.
La stessa psichiatra aggiunge che “i minori che avevano genitori più attenti e vicini alle problematiche degli stessi sono riusciti a gestire meglio le insofferenze legate all’età”. Questa teoria trova supporto anche nei dati provenienti dalla polizia di Roma, secondo cui questo fenomeno è sempre esistito ma è profondamente mutato dopo il primo lockdown. Una frustrazione che, riferisce Camilli, “ha determinato un livello di rabbia e di scontro fisico fuori controllo”. Rabbia, violenza, inconsapevolezza. Dai racconti degli agenti della squadra mobile della capitale emergono ragazzi dallo sguardo fiero, uno sguardo che descrive tutto il loro disagio sociale. Sì perché essere arrestati per loro costituisce un vanto, un attestato che certifica l’ingresso nel mondo criminale. “Molto spesso hanno un atteggiamento fiero nei confronti della violenza commessa ed è molto difficile aprire un dialogo e confrontarsi con loro. È come se loro avessero bisogno di imparare a sentire le emozioni, perché non sono in grado di provare pentimento e vergogna per ciò che hanno fatto”, puntualizza il responsabile della Comunità “Giovanni Paolo I”.
In questo processo, la frustrazione generata dai mesi passati rinchiusi in casa, per via del lockdown, fa il paio con altri due elementi: internet e l’emulazione dei modelli negativi. E se i social sono ormai considerati come degli strumenti attraverso cui darsi appuntamento, l’emulazione passa attraverso rapper e serie tv. È evidente che si debba cercare il modo per arginare il fenomeno. Per Vitali “bisogna creare situazioni dove dare ascolto e sfogo a queste necessità che sono collegate ai comportamenti violenti. Questo lo si può fare con progetti di volontariato o di educazione civica negli istituti scolastici”. Per Camilli, invece, tutto questo non è sufficiente. “Non basta ascoltare e comunicare con loro. Servono strutture con programmi mirati per permettere a questi ragazzi di imparare a relazionarsi e aiutarsi a vicenda”.
Al netto di tutte le considerazioni fatte, però, il fenomeno delle baby gang sembra potersi risolvere solamente con una decisa presa di coscienza dei genitori. Come spesso si dice il problema è alla radice ed è principalmente relazionale. La pandemia, i social e gli idoli negativi sono solamente benzina che alimenta un incendio che viene da lontano e che scoppia nell’animo e nella mente di questi giovani ragazzi.