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Addio a Vujadin Boskov, mitico allenatore della Sampdoria scudettata

di Valerio Dardanelli29 Aprile 2014
29 Aprile 2014

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«Io penso che tua testa buona solo per tenere cappello». La frase, nell’inconfondibile italiano slavizzato che lo ha reso celebre, è di Vujadin Boskov. Il destinatario è un giornalista che aveva insinuato che il Napoli guidato dal tecnico serbo sarebbe retrocesso. Boskov era un tipo sanguigno, passionale. Dovunque abbia allenato, ha lasciato il segno. Si è spento ieri mattina, a 82 anni, dopo una lunga malattia. È stato uno degli allenatori più amati nella storia del calcio italiano. Da diversi anni si era ritirato dalle scene, preferendo la tranquillità della campagna serba alle luci della ribalta di un mondo che non gli apparteneva più. Era un mago nel tenere lo spogliatoio unito: i giocatori che ha allenato nel corso della sua lunga carriera lo ricordano come un sergente di ferro dall’ironia pungente e dall’animo gentile.

In Serie A ha allenato Ascoli, Sampdoria, Roma, Napoli e Perugia ma è alla guida dei blucerchiati che ha vissuto i momenti più esaltanti. Sulla panchina della Samp del presidente Mantovani ha vinto lo scudetto nel 1991, due Coppe Italia, una Supercoppa italiana e una Coppa delle Coppe, il primo alloro europeo nella storia del club genovese. Sempre a Genova ha vissuto una delle sconfitte più brucianti della sua carriera, quando una punizione di Ronald Koeman, centrocampista del Barcellona, gli ha negato la gioia di alzare la Coppa dei Campioni. Per lui deve essersi trattato di un déjà vu, visto che già nel 1981 aveva perso una finale di Coppa dei Campioni: allenava il Real Madrid, vinse il Liverpool.  

Ha inciso ovunque sia stato. Ha condotto il modesto Den Haag, certamente non una delle “grandi storiche” del calcio olandese, alla conquista della coppa nazionale nel 1975. Alla guida del Real Madrid si è aggiudicato una Liga e due Coppe di Spagna.

È stato il primo tecnico slavo a lasciare il segno in Italia, aprendo la strada a Zeman che a Foggia inventò un nuovo modo di fare calcio, spettacolare e spensierato. Ma paragonare la Zemanlandia foggiana al gioco di Boskov sarebbe sbagliato: si tratta di epoche diverse, un calcio diverso. In comune, Zeman e Boskov, hanno sicuramente una tempra forte e la tendenza a esternare il proprio pensiero senza mediazioni. Vujadin era un fautore della difesa a uomo. Entrò più volte in polemica con Liedholm, convinto sostenitore della difesa a zona. Una volta disse: «La zona? Un brocco resta brocco anche se gioca a zona. Dov’è lo spettacolo?».

Da calciatore è stato un discreto mediano: con la maglia della Serbia ha collezionato quasi 60 presenze e nessuna rete. Ha scoperto e valorizzato moltissimi giocatori: Vierchowod, Lombardo, Dossena, Cerezo. Ha reso grande la premiata ditta Vialli-Mancini e ha lanciato in Serie A Francesco Totti. Ieri il capitano giallorosso lo ha ricordato nel messaggio di saluto comparso sul suo sito ufficiale: «È scomparso un altro membro importante della famiglia del calcio, Vujadin Boskov, un grande uomo, competente, vincente e dotato di un umorismo acuto e intelligente. Ricordo ancora il giorno del mio esordio con lui sulla nostra panchina… come potrei dimenticarlo? Grazie mister per avermi dato questa possibilità, unica come sei stato tu».

I messaggi di cordoglio hanno riempito la domenica calcistica. La Sampdoria ha postato su Twitter la foto del tecnico che tiene in mano lo scudetto e sotto la scritta: «Vogliamo ricordarti così. Ciao, grande Vuja, unico e inimitabile». Pagliuca, portiere della Samp che vinse il campionato, ha dichiarato: «Boskov, oltre che un grande allenatore, era anche un grande personaggio, uno psicologo dello spogliatoio. Sapevo che era malato da tempo ma ora sono addolorato. La sua bravura era quella di sdrammatizzare dopo le sconfitte e di criticarci dopo le vittorie». Molto sentito il ricordo di Mihajlovic, attuale allenatore della Sampdoria: «Per me era come un padre. È stato un maestro, un esempio, sul piano calcistico e anche sul piano umano, una di quelle persone che non vorresti mai lasciare e quando se ne vanno lasciano un vuoto incolmabile. Partirò domani per la Serbia per rendergli l’ultimo saluto, quello che merita un grande uomo, di sport e di vita, come è stato lui».

Valerio Dardanelli

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