“Anche io mi inginocchio sulle strade della Birmania e dico: cessi la violenza”. Dopo l’appello alla pace e al dialogo nell’Angelus del 3 marzo scorso, papa Francesco è tornato a chiedere la fine della repressione militare nel paese asiatico, ricordando con le sue parole l’immagine di suor Ann Nu Thawng, la religiosa cattolica saveriana, inginocchiata di fronte agli agenti per salvare i giovani durante le manifestazioni pacifiche pro-democrazia.
Secondo quanto denunciato dall’Associazione per l’assistenza ai prigionieri politici, una Ong per la difesa dei diritti umani con sede in Thailandia, “dall’inizio della protesta contro il colpo di stato militare del 1 febbraio scorso sono 202 le persone uccise dalle forze di sicurezza birmane”. Per la Ong “i militari hanno torturato, stuprato e non si sono fatti scrupolo di sparare ad altezza uomo durante le manifestazioni”. Ma a rendere il quadro più inquietante è l’ipotesi che le forze di sicurezza del regime possano aver utilizzato armi italiane nella repressione.
Dopo le due cartucce italiane ritrovate il 3 marzo in due località del paese asiatico e prodotte dalla Cheditte di Livorno (che ha subito smentito di averle mai vendute al Myanmar) Erasmo Palazzotto di LeU ha chiesto con un’interrogazione al ministro degli Esteri Luigi di Maio di “fare piena luce sul caso, specificando quali iniziative intenda assumere, affinché cessi la vendita, anche per via indiretta, di armi alla Birmania”. In quanto membro della Ue, l’Italia ha infatti un divieto assoluto di esportare qualsiasi arma o munizione verso il paese asiatico, più volte sottoposto a embargo per violazione dei diritti umani. Per Palazzotto occorre verificare “non solo una vendita diretta da parte dell’Italia, ma anche pericolose triangolazioni tra industrie che abbiano portato le nostre armi in Birmania”.