Mentre tutto il mondo combatte la sua guerra con il Coronavirus, in Siria la pace è lontana. Sono almeno 46 le persone che sono rimaste uccise nell’attentato di ieri ad Afrin, una cittadina a nord-ovest della Siria, occupata dalle forze turche nel 2018. Di queste vittime, 11 sono bambini e sei sono miliziani arabi siriani cooptati da Ankara, secondo quanto rivelato dall’Osservatorio nazionale per i diritti umani nella regione. I numeri, però, potrebbero crescere ancora: oltre 50 persone risultano – al momento – ferite.
L’attentato, compiuto con una cisterna-bomba, si è verificato poco lontano dalla residenza del governatore turco, in una zona affollata di negozi, in cui le persone si accalcavano per gli acquisti prima dell’Iftar, il rituale pasto della rottura del digiuno giornaliero durante il Ramadan. È l’attentato più sanguinoso degli ultimi due anni nella zona controllata dalla Turchia, dove risiedono arabi sfollati da altre zone della Siria e i curdi, tra i pochi sopravvissuti alla pulizia etnica (oltre 100 mila sfollati curdo-siriani), secondo quanto affermano le organizzazioni umanitarie siriane e internazionali.
Nessuno ha ancora rivendicato l’atto terroristico, ma per il governo di Ankara pare non ci siano dubbi. “Il PKK/YPG, nemico dell’umanità, ha di nuovo preso di mira civili innocenti ad Afrin”, ha scritto il ministro della Difesa turco T.C. Millî Savunma Bakanlığı su Twitter. Un attacco frontale, quindi, nei confronti dell’Unità di protezione popolare curda (l’YPG), il ramo siriano del Partito dei lavoratori del Kurdistan (il PKK), considerato un gruppo terroristico non solo da Erdogan, ma anche da altre nazioni occidentali e in lotta con il governo di Ankara dal 1984 perché combatte per l’indipendenza dei curdi turchi.
Anche gli Stati Uniti hanno condannato l’attacco, chiedendo un cessate-fuoco a livello nazionale in tutta la Siria: “questi atti codardi – ha detto il portavoce del Dipartimento di Stato Morgan Ortagus – sono inaccettabili da qualsiasi posizione avvengano, in questo conflitto”.