“Il medium è il messaggio”. L’assunto del semiologo canadese Marshall McLuhan trova la sua sublimazione nella’annunciata fusione tra il colosso delle telecomunicazioni AT&T e il produttore di contenuti Time Warner. E se dopo la ratifica dei due cda, l’accordo supererà anche l’esame dell’antitrust, il matrimonio potrà dirsi ufficiale. AT&T acquista Time Warner per 85 miliardi di dollari, 108.7 col debito, 107.5 per azione.
La sfida che AT&T lancia investe la nuova idea di fruizione della tv, dove i contenuti e la personalizzazione della scelta sovrastano la programmazione, e la smaterializzazione del prodotto elude la fisicità del “vecchio” mezzo. La fusione tra i due media punta ad essere un vero crack nell’industria dei media e delle comunicazioni. AT&T è l’infrastruttura che si occupa di telefono, banda larga, fibra e satelliti. Time Warner, che prende il nome dal magazine settimanale “Time” e dalla celebre casa cinematografica “Warner Brothers”, è l’azienda che realizza la produzione dei contenuti, dal cinema alle serie tv e al giornalismo, e che include colossi dei mass-media come CNN, HBO e TBS. L’anello di congiunzione è Direct Tv, un operatore di programmi che trasmette via satellite acquistato per 50 milioni. AT&T e il CEO Randall Stephenson stimano il valore di questa sinergia per un miliardo di dollari nei tre anni successivi alla chiusura dell’operazione, sul destino della quale però incombe ancora la sentenza dell’antitrust e su cui s’intreccia anche la corsa alla casa bianca.
Il candidato repubblicano Donald Trump ha già fatto sapere di non gradire queste concentrazioni di aziende e potere, che sono anzi gli oligopoli che vorrebbe combattere. Stando alle dichiarazioni del tycoon l’accordo sarebbe dunque in pericolo, in caso di una sua elezione. Più morbida sembra invece la posizione della candidata democratica Hillary Clinton. L’ex First lady e segretario di stato potrebbe far pressioni solo al fine di una qualche dismissione di alcuni canali.
In attesa del semaforo verde, Randall Stevenson punta a far diventare AT&T un gigantesco conglomerato dei media, che soddisfi le nuove tendenze giovanili verso una tv sempre più smaterializzata e a portata di smartphone o tablet. La società di Dallas, da fornitore dei servizi di telecomunicazioni, sa che il 60% del traffico internet consiste nella fruizione di immagini video e punta a quella fetta del mercato americano che rifiuta abbonamenti e ripetitori digitali preferendo “la tv del dove e quando vuoi tu”. Il futuro ci dirà se l’idea di un merger tra internet provider e contents producer sarà stata la soluzione vincente, in un mercato dei media sempre più competitivo ed aggressivo.
L’idea di unire infrastrutture di comunicazione e produttore di contenuti non è infatti un inedito assoluto. Il precedente ed identico tentativo che America Online aveva fatto con la stessa Time Warner non era andato a buon fine, trasformando AOL da società acquisitrice ad una componente interna della stessa società di Jess Bewkes. Jess Bewkes che sapendo di avere in mano una potenziale miniera d’oro, aveva rifiutato un’offerta di acquisto di 85 dollari per azione dalla 21st Century Fox di Ruperth Murdoch. E il tempo gli ha dato ragione. Come ragione gli dà anche l’agenzia Bloomberg, che reputa il valore dell’acquisizione di 107,50 dollari per azione (53.75 dollari cash e 53.75 in titoli AT&T) il prezzo pieno; AT&T ha dunque poco margine di errore. L’innovazione che hanno in mente i suoi dirigenti consiste nel proporsi come un ”aggregatore di aggregatori”, che non punti però sull’esclusività dei contenuti ossia riservandoli ai soli titolari di abbonamenti, come fanno ad esempio concorrenti quali Netflix o Amazon, e che ritengono sia l’errore da non commettere. Randall Stephenson ha commentato che l’accordo è “l’unione perfetta di due società e può tradursi in un approccio nuovo su come l’industria dei media e delle comunicazioni funziona per i consumatori, i creatori di contenuti e gli inserzionisti pubblicitari”.