Da quando è scoppiato il conflitto russo-ucraino un’ondata di persone – principalmente donne e bambini – si è riversata in Europa alla ricerca di protezione e salvezza. In Italia la maggior parte dei profughi ha trovato dimora in famiglie italiane o ucraine da tempo in Italia. Altri, invece, sono stati accolti dalla Protezione civile o da centri gestiti da onlus o associazioni. Tra queste anche la Fondazione Progetto Arca, nata nel 1994, con l’intento di aiutare le persone in stato di indigenza. Anche l’emergenza determinata dalla guerra in Ucraina, li ha visti lavorare in prima linea, tanto sul territorio italiano per l’accoglienza dei profughi quanto alle frontiere. A un anno dallo scoppio del conflitto abbiamo fatto il punto della situazione con Alberto Sinigallia, il presidente della Fondazione.
A quasi un anno dallo scoppio della guerra in Ucraina, pensa che le misure attivate dallo Stato per l’assistenza dei profughi sul territorio siano adeguate? Cosa si potrebbe migliorare?
“L’assistenza fornita dallo Stato è stata identica a quella garantita agli altri profughi. La cosa fondamentale da sottolineare, però, è che circa il 90% delle persone arrivate è stato accolto da famiglie italiane e da famiglie ucraine da tempo in Italia che, per puro spirito di solidarietà, le hanno accolte. Questo ha consentito allo Stato un notevole risparmio perché per chi ha già alloggio lo Stato offre 300 euro per tre mesi. Invece, i singoli profughi senza casa costano circa 750 al mese. Noi abbiamo accolto una parte del 10% dei profughi rimanenti, tutti donne e bambini”.
Cosa fate voi come Fondazione?
“Oltre ad accoglierli appunto nelle nostre sedi, in accordo con la Regione e il comune di Milano abbiamo creato un hub informativo per indirizzare e sostenere i profughi che arrivavano dall’Ucraina. Ne hanno usufruito più di 10.000 persone. Offriamo loro anche un supporto psicologico. Un certo numero di ore di terapia è, infatti, anche imposto dalla Prefettura. La terapia è molto importante, serve non solo ad aiutarli a superare il trauma delle bombe e degli attacchi militari, ma anche a normalizzare nuovamente la vita quotidiana. Li aiuta anche ad accettare che questa che stanno vivendo lontano da casa è la loro nuova normalità. Certo, ci sono degli ostacoli. Quello linguistico, per esempio. È molto difficile trovare psicologi che parlino l’ucraino, il lavoro dei volontari in questo senso è stato determinante. In più, soprattutto con i bambini, la terapia si può fare anche attraverso il gioco, la gestualità, il disegno. Il che, in qualche modo, ha facilitato la situazione”.
Quali sono le maggiori difficoltà incontrate da una realtà come la Fondazione Arca nell’assistenza dei profughi nelle proprie strutture?
“La difficoltà principale è, appunto, la lingua. Per questo abbiamo formato una equipe di operatori e volontari che parlasse ucraino e conoscesse da vicino gli usi e i costumi della società ucraina. Questo ha notevolmente facilitato l’inserimento. Li abbiamo accolti in una delle nostre strutture dove già vivevano madri e bambini provenienti dall’Africa. Le profonde differenze culturali, indubbiamente, all’inizio non hanno reso facile la convivenza reciproca. Dopo tanti mesi insieme, però, la situazione è molto migliorata. Le difficoltà comuni, infatti, hanno aperto orizzonti di comprensione reciproca molto ampi”.
Come si stanno integrando queste persone nel nostro Paese? Quali sono i principali ostacoli all’integrazione?
“Il fattore più difficile per l’integrazione, al di là dell’ostacolo linguistico, è l’incertezza. La maggior parte delle donne, avendo lasciato a casa i propri mariti o compagni a combattere, in un primo momento non si è impegnata particolarmente nell’apprendimento della lingua italiana. Pensavano di tornare a casa subito. Alcune di loro, con il tempo, hanno compreso che la fine della guerra, purtroppo, non sarebbe stata immediata e hanno deciso di rimanere in Italia anche dopo la fine del conflitto, anche perché spesso hanno trovato lavoro e soprattutto perchè le loro città sono state distrutte.. La scuola, soprattutto per i più piccoli, è stata un fattore determinante per la loro integrazione. I più piccoli, infatti, frequentano asili e scuole materne italiane, mentre i più grandi, quando è stato possibile, hanno continuato a studiare con le proprie scuole in Ucraina grazie alla didattica a distanza”.