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Mozart e la “partitura magica”, oggi l’Alzheimer si combatte con strumenti, spartiti e suoni. La ricerca lo conferma: curare con la musicoterapia è possibile

di Marcello Gelardini09 Novembre 2012
09 Novembre 2012

Sono passati oltre 250 anni dalla sua nascita ma Wolfgang Amadeus Mozart, il genio di Salisburgo, non smette di stupire. Stavolta, però, niente ritrovamenti di rare composizioni o nuovi dettagli sulla  sua vita. Perché la sua musica, da circa un ventennio, è al servizio della medicina e, pur tra lo scetticismo di parte della comunità scientifica, per qualcuno sta diventando un faro illuminante; una delle poche sicurezze, l’appiglio cui aggrapparsi per tentare di sconfiggere una delle malattie più implacabili del nostro tempo: l’Alzheimer.
Lo chiamano “Effetto Mozart” e, dopo numerose sperimentazioni, sembra finalmente dare i suoi buoni frutti. Perché, se la musicoterapia in altri settori terapeutici (psichiatria in primis) ha dato risultati solo parziali, nel campo della geriatria funziona eccome. Certamente non sarà la panacea che debellerà un male oscuro come l’Alzheimer; sicuramente, se le tendenze in atto verranno confermate, potrà aiutare il malato a migliorare le proprie condizioni di vita. E se negli Stati Uniti è da tempo che la ricerca punta forte sulle potenzialità taumaturgiche dell’enfant prodige austriaco, anche in Italia qualcosa comincia a muoversi: da un quinquennio, nei nostri ospedali e nelle nostre università è iniziata una lunga stagione di studio su pazienti affetti da demenza cognitiva degenerativa; solo oggi, però, si possono cominciare a tirare le prime conclusioni.

Musica e geriatria.
La musicoterapia ha dimostrato di avere sull’anziano tempi di attecchimento piuttosto lunghi; ma quanto è stato fatto finora è già un ottimo passo in avanti. In assenza di profili di prevenzione che evitino il manifestarsi del morbo e soprattutto con scarse cure farmacologiche mirate a disposizione la riabilitazione cognitiva, in ambito geriatrico, costituisce uno dei terreni di maggior indagine. Tutte le tecniche proposte in passato erano, però, mirate ad un miglior sfruttamento delle capacità cognitivo-mnemoniche residue, piuttosto che ad un vero recupero delle funzioni compromesse. Considerata la grande prevalenza di deficit cognitivi associati al manifestarsi della malattia, cui si collegano l’inevitabile disabilità e l’altissimo costo che la gestione di questi soggetti comporta (in termini di impegno di risorse economiche e sociali), l’individuazione di un’efficace tecnica di riabilitazione cognitiva è un problema di cruciale importanza in tutte le società occidentali, in cui il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione è particolarmente evidente. In questo senso, si è riscontrato come l’ascolto di alcune forme musicali produrrebbe un effetto favorevole e riproducibile su determinate funzioni cognitive.

La scoperta di un fenomeno.
L’effetto Mozart è stato descritto per la prima volta nel 1993 dai neurologi Rauscher e Shaw, in una ricerca pubblicata sull’autorevole rivista scientifica “Nature”. In quel pioneristico studio, i due medici divisero in tre gruppi 84 studenti di un college: al primo gruppo fecero ascoltare la sonata per due pianoforti in re maggiore K448 (“Allegro con spirito”) di Mozart, al secondo una musica da relax mentre al terzo non fecero sentire nulla. Dopo 10 minuti d’ascolto furono tutti sottoposti a una prova di ragionamento; ebbene, gli studenti “mozartiani” ottennero un punteggio nettamente superiore agli altri, anche se dopo un quarto d’ora i benefici erano già sfumati. Rauscher e colleghi osservarono in più occasioni come l’ascolto della musica aiutasse ad “organizzare” l’emisfero cerebrale destro, incrementando le performance spazio-temporali, esercitando la corteccia nello svolgimento delle funzioni cognitive superiori, facilitando le operazioni di simmetria. Nel tempo seguirono molti studi per capire se un utilizzo continuativo di tale tecnica potesse avere effetti duraturi nel tempo, anche dopo un certo periodo di “silenzio musicale”; risposta affermativa.
Solo nel 1998, però, si decise di applicare la ricerca di Rauscher alla geriatria: vennero prese due gemelle monozigote di 74 anni, una delle quali affetta da malattia di Alzheimer; e sottoposte entrambe all’ascolto della K448; nella signora malata si riscontrarono i miglioramenti maggiori (rispetto allo stato mentale di partenza). Tutte le ricerche successivi mirate a dimostrare una correlazione tra le opere di Mozart e un parziale recupero cognitivo nei casi di Alzheimer hanno dato il medesimo risultato: nessuna musica ha effetti positivi come quella di “Amadeus”.
Bach, Beethoven, Haydin, Listz, hanno tutti fallito laddove Mozart è invece riuscito: “riportare alla vita” pazienti che, perlomeno dal punto di vista cognitivo, vivevano da tempo sotto un campana di vetro, isolati dal mondo e con un passato che si andava cancellando giorno dopo giorno.

Italia all’avanguardia.
Il nostro Paese è stato tra i primi a credere nelle potenzialità dell’Effetto Mozart in geriatria; in particolare, il Dipartimento di Scienze dell’invecchiamento dell’universitàLa Sapienza di Roma ha sperimentato vari modelli terapeutici che in poco tempo sono diventati capisaldi nella ricerca sull’Alzheimer. Arruolando gruppi di pazienti over65 affetti da decadimento cognitivo e sottoponendoli a diversi profili d’ascolto, nonché a una serie di test neuro-psicometrici, si è scoperto che si può raccogliere una serie di dati davvero interessante.
Prendendo, ad esempio, un campione di dieci malati e facendo loro ascoltare siala K488 sia il brano “Per Elisa” di Beethoven, si riscontrerà che tutti i pazienti migliorano le proprie abilità spazio-temporali dopo l’ascolto della K448 di Mozart; cosa che non avviene dopo l’ascolto di “Per Elisa”. Aldilà, però, degli effetti “in acuto” (cioè immediatamente dopo la terapia) quello che richiama l’attenzione è il “lavoro” che la musica mozartiana riesce a fare nel lungo periodo, sottoponendo dieci persone affette da Alzheimer ad un ciclo di ascolto della durata di mezz’ora al giorno, per un periodo di 6 mesi: il miglioramento delle principali funzioni cognitive, in questo caso, è netto in tutte le aree maggiormente colpite dalla demenza (spazio-temporali, ideative, dell’attenzione e della memoria) e si assiste ad un rallentamento delle manifestazioni degenerative tipiche dei malati di Alzheimer. La dimostrazione che i benefici sono duraturi nel tempo e non “volatili”, come alcuni hanno sostenuto in passato.

La risposta è nelle note.
Ma perché proprio la musica di Mozart? Sembra che uno degli aspetti caratterizzanti della sua ricerca e, di conseguenza, della sua opera sia la frequente ripetizione della linea melodica: un tema viene ripetuto non necessariamente con le stesse note, ma con note differenti allo stesso intervallo, con rovesciamento della linea melodica, oppure con note differenti e differenti intervalli, ma con la stessa durata. I rapporti armonici della K448, in particolare, sono estremamente semplici; ciò determina la quasi assenza di elementi di “sorpresa” che possono distogliere da un ascolto razionale; ogni elemento di tensione armonica (e melodica) trova una risoluzione che conferma le aspettative di chi ascolta.
Un secondo aspetto distintivo della musica di Mozart è dato dalle periodicità a lungo termine. Una musica altamente “organizzata”, che si muoverebbe quindi in sintonia con la super-organizzazione della corteccia cerebrale.
Ciclicità e schematicità: due elementi fondamentali nel lavoro del cervello umano. Ciò farebbe presupporre, quindi, che anche altre musiche composte con gli stessi criteri, potrebbero dare i medesimi frutti. Tali elementi strutturali, infatti, si possono riscontrare anche in altre composizioni; il problema, semmai, è che risulta estremamente complicato trovare altre composizioni che presentino queste caratteristiche tutte insieme (come avviene invece, abitualmente, in Mozart).
Quello che occorre ora, per chiudere il cerchio, è la diffusione della musicoterapia nei reparti geriatrici e in tutte quelle strutture che operano per la riabilitazione del malato di Alzheimer. Solo una rete capillare di centri in cui sperimentare l’Effetto Mozart potrebbe essere veramente utile alla medicina. La formazione di personale esterno che collabori con il personale medico e infermieristico diventa fondamentale. In questo senso, da tempo, nei Conservatori italiani sono stati attivati diplomi di primo livello e di specializzazione finalizzati a formare musicoterapeuti professionisti; le accademie di Pescara, Verona e L’Aquila le prime a dare l’esempio. Una strada seguita anche da altri Conservatori; la conferma di come i buoni risultati ottenuti dalla musicoterapia in alcuni ambiti scientifici abbiano invogliato le istituzioni a battere su questo tasto. Un tentativo, del resto, va fatto; non sono molte altre le opportunità che la ricerca offre; i campi in cui intervenire per affrontare l’Alzheimer sono ancora limitati. La musica ha dimostrato nei secoli di avere un potere incredibile; chissà che, anche stavolta, non riesca nell’impresa.

Marcello Gelardini

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