Mosul, Aleppo e Raqqa: tre città in cui si stanno combattendo le battaglie finali per il futuro di Siria e Iraq. A Mosul, roccaforte del Califfato di Al-Baghdadi nel nord dell’Iraq, lungo il fiume Tigri, si combatte stanza per stanza. L’esercito iracheno, le unità di peshmerga del Governo Regionale del Kurdistan e le milizie sunnnite, yazide e cristiane raccolte nel People’s Mobilization Units stanno togliendo terreno ai miliziani neri del Califfo. Angolo dopo angolo sono riusciti a strappare all’Isis i quartieri Qadisia e Baker, la parte Est della città.
La popolazione, stretta nella morsa, è ostaggio dello Stato Islamico. I 600mila abitanti sono in trappola, impossibilitati a fuggire. I cecchini di Daesh – nome arabo dell’Isis – fanno fuoco su chiunque tenti di avvicinarsi alle linee dei liberatori.
L’offensiva “Free Mosul” per liberare la città dalle mani dei jihadisti è iniziata il 17 ottobre scorso. Ma l’avanzata dell’Iraqi Counter Terrorism Service, le forze speciali che guidano le operazioni militari, procede lentamente: la parola d’ordine è evitare quanto più possibile perdite tra i civili.
I peshmerga della Regione Autonoma del Kurdistan iracheno sono in prima fila nei combattimenti. “In queste ore stanno liberando il quartiere Posta”, ci spiega l’Alto Rappresentante del Kurdistan Regional Government in Italia, la dottoressa Rezan Kader. Il futuro però rimane pieno di insidie. “Nonostante tutti gli sforzi, la liberazione dell’intera città avrà bisogno di tempo”, ci racconta l’ambasciatrice. “Lo scenario che si presenta è delicato e complicato da gestire: i terroristi di Daesh utilizzano la popolazione come un gigantesco scudo umano. E i civili sono coloro che hanno pagato il prezzo più alto da quando, nel 2014, è iniziata l’occupazione dell’Isis”. Dal 17 ottobre, inizio dell’offensiva, ad oggi lo Stato Islamico ha impiegato contro la coalizione 632 autobombe. E sono oltre 2000 gli abitanti rimasti uccisi.
Ad Aleppo, la città siriana a Ovest dell’Eufrate, si sta invece consumando nei quartieri orientali la battaglia finale tra l’esercito di Assad e i ribelli guidati da Al-Nusra, la formazione jihadista in cui è confluita Al Qaeda. Con l’appoggio degli aerei di Mosca che partono dalla base russa di Ltakya, i soldati lealisti di Damasco hanno conquistato in queste ore gli ultimi settori in mano ai ribelli dell’Aleppo Army, la formazione di Al-Nusra, Salafiti e Fratelli Musulmani, che conta tra i 10mila e i 15mila combattenti. Nella notte tra il 12 e il 13 dicembre i soldati di Assad hanno sottratto ai jihadisti la quasi totalità dei quartieri orientali e la città vecchia.
Giampiero Gramaglia, consigliere dell’Istituto Affari Internazionali, ex direttore dell’Ansa e autore di libri su Medio Oriente e politica americana, ci ha delineato il quadro delle dinamiche in corso. “Ad Aleppo, russi e lealisti di Assad stanno forzando i tempi per arrivare all’insediamento del neopresidente americano Trump con la città già presa”, spiega. Ma quali sono le reali forze in gioco, aldilà di quello raccontato dai media, e i risvolti internazionali della situazione? “Ad Aleppo Est l’opposizione moderata non ha mai contato quasi nulla. La parte orientale della città è la roccaforte di Al-Nusra, e l’Aleppo Army non è altro che il nuovo nome dei gruppi jihadisti. Dire, come fanno i media ufficiali, che viene colpita la popolazione civile pur di colpire i ribelli che si annidano tra i civili, non è corretto. Perché i civili rimasti in questi quartieri sono compartecipi della battaglia, sono lì perché hanno scelto di rimanere. Quando sono stati aperti i corridoi umanitari, la gente non è venuta via proprio perché molto spesso voleva restare lì: si tratta per la maggior parte delle famiglie dei combattenti islamisti”.
Come avviene a Mosul, i residenti che cercano di sottrarsi al controllo islamista vengono presi di mira dai cecchini dell’Aleppo Army. O cadono vittime dei colpi di mortaio lanciati per vendetta nei quartieri ovest della città. Solo nell’ultimo mese i civili uccisi sono stati 590. Ancora una volta, dunque, sono i civili a pagare il prezzo più alto.
Sul versante siriano della battaglia contro lo Stato Islamico, l’avanzata su Raqqa procede a fasi alterne. Il cuore del Califfato è ancora nelle mani dell’Isis. Il peso dei combattimenti è tutto sulle spalle dei combattenti curdi, le brigate combattenti YPG e YPJ, composte da uomini e donne e organizzate sui principi dell’uguaglianza.
Nonostante i raid aerei dell’aviazione statunitense di questi giorni, l’Operazione Scudo dell’Eufrate – il nome dell’attacco finale lanciato dalle forze della coalizione democratica siriana SDF, composta dai miliziani curdi del Rojava e dalla coalizione di forze democratiche sunnite, cristiane e yazide – è in fase di stallo. Perché su chi entrerà per primo nella città – sunniti, curdi delle brigate YPG, o arabi alauiti – si sta concentrando l’attenzione delle parti in lotta per assumere il controllo della futura Siria, e dei loro partner internazionali: Assad, con il sostegno dei libanesi di Hezbollah e dei russi; Erdogan, che preme nel nord del paese, gli Stati Uniti e le monarchie del Golfo.