Ilario Piagnerelli, giornalista di Rai News 24 ed ex studente del Master in giornalismo della Lumsa, da quando è scoppiata la guerra è andato in Ucraina più volte per documentare il conflitto con i suoi occhi. A Lumsanews racconta le difficoltà che gli inviati al fronte devono vivere.
Dal momento che non ci sono aerei per l’Ucraina, in che modo riesci ad entrare nel Paese?
“Il modo più facile è via terra. Con la mia troupe entro dal sud, da Odessa, e piano piano decidiamo dove andare. Il fronte, in ogni caso, si trova tutto nell’est dell’Ucraina, in una linea immaginaria che va da Odessa fino al nord a Kharkiv”.
Com’è vivere le giornate in una zona di guerra e lavorare allo stesso tempo?
“Cerco sempre di fare base nelle città in cui, a livello di beni essenziali, non manca nulla. Dormo negli alberghi dove spesso, però, non c’è la corrente elettrica. Può capitare, infatti, che durante la notte non si riesca a caricare il cellulare e tutta l’attrezzatura per andare in onda. Il problema maggiore per noi giornalisti, in realtà, non è la reperibilità dei beni, ma il rischio dei bombardamenti”.
Tanti giornalisti infatti sono stati uccisi o feriti…
“Sì. Nel primo mese di guerra sono morti tantissimi giornalisti. Ad Irpin’ i giornalisti che sono andati a filmare l’evacuazione dei civili dalla città, sono stati uccisi, così come gli abitanti. Penso al documentarista americano, Brent Renaud, ai due colleghi della troupe della Fox e molti altri in tutta l’Ucraina. Dall’inizio del conflitto sono rimasti feriti anche due freelance italiani: Mattia Sorbi e Claudio Locatelli”.
Molti colleghi infatti si muovono all’interno delle città accompagnati e scortati dall’esercito. Tu hai mai avuto contatti diretti con quello ucraino?
“Ho avuto contatti con l’esercito quando ho partecipato ad attività che richiedevano l’intervento militare come lo sminamento oppure quando ho assistito allo sparo dei cannoni ricevuti dall’Italia. Per entrare nelle città appena liberate non serve essere accompagnati dall’esercito. Quando arrivi lì, i militari aprono i cancelli al checkpoint e tu entri. Io non sono il cosiddetto giornalista “envended”, ovvero l’inviato che sta a seguito dell’esercito”.
Chi sono le tue fonti? Il territorio è vasto e le notizie sono tantissime, come filtri le informazioni?
“Le stesse che usano le redazioni a Roma. Le grandi notizie della giornata le danno le agenzie internazionali alle quali io faccio rifermento. Dopodiché integro le informazioni con quello che vedo sul luogo: le storie delle persone o situazioni particolari che rappresentano in modo chiaro quello che un’agenzia dice in maniera asettica. Questo è il mio lavoro: dare un volto umano ad aridi lanci di agenzia”.
Come vengono trattati i giornalisti dagli ucraini?
“Siamo sempre ben accolti dalla popolazione perché sanno che stiamo lì per raccontare la sofferenza che stanno vivendo. Ci rispettano molto. Un’ accoglienza del genere non immaginerei mai di trovarla in Italia se mi occupassi di cronaca nazionale”.
Sei tra i pochi giornalisti in Ucraina ad aver documentato il massacro di Bucha. Grazie alla tua documentazione hai smentito l’ipotesi di chi credeva che si trattasse di una semplice montatura.
“In quel momento sono stata una fonte primaria perché in determinate occasioni, come quella, sul posto non ci sono i grandi media internazionali. Tutto ciò che, in quel momento, viene diffuso da un inviato è oro perché rappresenta uno dei pochi testimoni. Quando Bucha è stata liberata c’era una gioia immensa tra gli abitanti, mista, però, ad un immenso dolore causato da tutto il disagio che stavano vivendo e da tutte le strade ancora tappezzate di cadaveri. Gli abitanti di Bucha sono riusciti anche a fare una fossa comune nel giardino della chiesa perché i russi vietavano di portare i morti al cimitero. Persone uccise a brucia pelo, senza alcun motivo. Lì, in quel momento, ho visto davvero l’orrore”.
Noti ci sia differenza tra il racconto che media fanno della guerra e ciò che effettivamente accade sul territorio?
“I giornalisti sono accusati dalla propaganda russa di non fare bene il loro lavoro ma la realtà è un’altra. Il nostro ruolo è quello di testimoni diretti della verità ed è un ruolo importantissimo anche per confutare, spesso, le propagande di guerra di entrambi i paesi. Qualche settimana fa, per esempio, Segej Sojgu, il ministro della Difesa russo si è vantato in un comunicato stampa ufficiale di aver ucciso 600 soldati ucraini in un solo colpo attraverso un attacco alla caserma ucraina di Kramators’k, ma non è vero. Un collega del Tg3 che era sul posto, infatti, ha dichiarato che c’erano due crateri sul terreno causati dalle esplosioni ma non c’erano né morti né feriti. Il giornalista, quindi, ha smentito in tempo reale la propaganda di Mosca. Mi piacerebbe, inoltre, documentare quello che accade nelle città occupate dai russi ma non è possibile perché per farlo un giornalista deve accreditarsi con i russi e, inevitabilmente, il racconto della realtà non sarebbe più tale”.
Come è cambiato il ruolo del giornalista di guerra negli anni?
“In quest’ultima guerra, il giornalista è diventato un protagonista. Il conflitto ha fatto da palcoscenico a tanti giornalisti e colleghi in tutto il mondo. Questo, ovviamente, fa sentire ancora di più agli inviati il peso di un’enorme responsabilità. Il vero cambiamento è l’evoluzione digitale. Il nostro è un racconto che facciamo in competizione e in collaborazione con i social. Non c’è mai stato un conflitto tanto social come questo. I canali Telegram, in particolare, diffondono continuamente video e foto che poi il giornalista deve verificare. Dopo un anno di guerra la sfida, ora, sarà trovare un nuovo approccio perché il racconto riportato da diversi giornalisti è sempre simile. Bisogna trovare un nuovo modo di raccontare”.