Alberto Crespi, come critico dell’Unità lei ha scritto molto su Stanley Kubrick, ma oggi, a vent’anni dalla scomparsa, qual è la prima cosa che le viene in mente del grande regista?
«Il giorno in cui è morto. Il 7 marzo 1999 era una domenica. Credo fosse mattina quando arrivò la notizia. Per ore mi ostinai a credere che fosse una fake news, quando ancora le fake news non esistevano o comunque non erano “di moda” come adesso. Mancava poco all’uscita del nuovo film e pensavo che fosse lo scherzo di qualche buontempone, o addirittura una trovata promozionale che sarebbe stata alquanto macabra, va detto. Soprattutto mi sembrava paradossale il pensiero che non sarebbe arrivato a vedere il millennio che lui aveva inventato, il Duemila. Scrissi per l’Unità un necrologio che non ricordo, poi andai in redazione a “Hollywood Party” (programma radiofonico in onda su Rai Radio 3, ndr) e confezionai al volo – con l’aiuto di Silvia Toso, che allora era la curatrice del programma – un cinema alla radio che mi sembra di ricordare andò in onda la sera stessa. Era “Orizzonti di gloria”. Risentirlo – perché alla radio, ovviamente, andava solo il sonoro – fu stupefacente. Aveva dei dialoghi serrati e perfetti. Andava come una spada. Nonostante la magnificenza delle immagini, era anche un radiodramma meraviglioso».
Lei ha definito “Stanley Kubrick e me” del suo vecchio assistente Emilio D’Alessandro e di Filippo Ulivieri “il libro più importante mai scritto su questo regista”. Perché? Inoltre sostiene che ha spazzato via “leggende idiote” circolate sul maestro: quali?
«Su Kubrick circolavano leggende assurde e lievemente ridicole. Che fosse un gelido automa, che indossasse sempre lo stesso vestito, che guidasse con l’elmetto, che fosse un perfezionista maniaco. La cosa più bella del libro di Emilio – che ho avuto occasione di conoscere bene – è che lo descrive come un clamoroso pasticcione. L’aneddoto di quando fa esplodere un forno a microonde mettendoci dentro delle uova crude è strepitoso, e così tanti altri. Soprattutto era passata l’idea che fosse un uomo freddo e crudele come certi personaggi dei suoi film. Il libro ne racconta invece la grande umanità. Le pagine sulla sua morte sono commoventi».
Che idea si è fatto dell’uomo Stanley Kubrick, così misterioso da sembrare il Salinger del cinema?
«Sull’uomo Kubrick circolavano molte ridicole leggende, in parte alimentate anche da lui per essere lasciato in pace. Un altro libro fondamentale per capirne non tanto la psicologia – che ci interessa relativamente – quanto il suo modo di rapportarsi agli altri è “Con Kubrick” di Michael Herr, il grande inviato di guerra che aveva scritto con lui “Full Metal Jacket”. Kubrick era molto semplicemente – per come lo hanno descritto coloro che ci hanno lavorato – un uomo che prendeva il suo lavoro con estrema serietà. Era completamente diverso da Salinger: usciva di rado da casa – che poi era una tenuta con numerosi edifici, dove aveva studio e tutto quanto – ma frequentava moltissime persone, di persona e attraverso le tecnologie che l’epoca gli consentiva. Un immenso rimpianto è non averlo visto alle prese con internet, le e-mail e tutti i modi di comunicare che abbiamo oggi. Sarebbe impazzito di gioia. Ne avrebbe fatto un uso compulsivo. Invece doveva limitarsi al telefono e al telex, che adorava e che invece, avendolo usato come giornalista, posso dire che era un mezzo di comunicazione antiquato e laborioso. Era in continuo contatto telefonico con decine di persone – quasi sempre per lavoro, certo. D’Alessandro racconta le telefonate in cui lo obbligava a fare da interprete quando voleva parlare con Fellini. Rilasciava regolarmente interviste quando uscivano i film. Era tutt’altro che un recluso. Amava stare a casa sua, certo, e sempre più mi risulta difficile dargli torto».
Lo so che è un gioco perverso ma mi dica al volo il suo Kubrick preferito, quello che invece l’ha convinta di meno e il suo protagonista preferito. E perché.
«Il film del cuore è “Barry Lyndon” perché ci ho scritto la tesi di laurea, ma il film più importante, forse il più importante della storia del cinema, è “2001”. Sono rimasto straordinariamente deluso dall’opera prima “Fear and Desire”, quando l’ho vista. Capisco che a livello intellettuale si possa dire che contiene già tutti i temi e tutte le ossessioni dei film successivi, ma espressi in modo così rozzo da rendere il film quasi inguardabile. Chi lo definisce un capolavoro solo perché è comunque un film di Kubrick è un inguaribile snob. Il mio protagonista preferito… sono tre, i tre ruoli che fa Peter Sellers in “Il dottor Stranamore”. Perché sono fra i ruoli più comici della storia del mondo».
Kubrick ha affrontato diversi generi e temi. Secondo lei ha avuto delle costanti?
«La guerra, l’aggressività umana, i rapporti di potere e di classe. Kubrick è un etologo. Analizza gli uomini studiandone il comportamento come se fossero degli animali. La psicologia non gli interessa: gli interessano i comportamenti, le azioni, e il modo in cui influiscono sui rapporti umani».
Pure secondo lei 2001: Odissea nello spazio ha inventato la fantascienza moderna?
«”2001″ è uno dei film più importanti della storia. Ha preso la fantascienza, che era un genere di serie B, e ne ha fatto il genere portante del cinema mondiale. Da genere di puro intrattenimento l’ha trasformato in veicolo per porsi, filosoficamente, le domande più alte sull’umanità e sul suo destino. Esiste un cinema prima di “2001” e un cinema dopo “2001”».
Kubrick era un regista freddo e “amorale”?
«Freddo forse, amorale assolutamente no. E comunque ci sono nel suo cinema almeno tre sequenze emotivamente fortissime: la morte del piccolo Bryan, figlio del protagonista, in “Barry Lyndon”, la scena della ragazza tedesca che canta alla fine di “Orizzonti di gloria”, la messa fuori uso del computer HAL in “2001”. Certo, uno potrebbe dire che l’ultima è la “morte” di una macchina, ma le altre due no. E la ragazza di “Orizzonti”, che nei titoli compare con il nome di Suzanne Christian, altri non è che Christiane Harlan, poi divenuta sua moglie. Diciamo che lì si è commosso anche lui».
Kubrick ha sdoganato l’estetica della violenza? Infinite le polemiche su Arancia Meccanica, ad esempio sulla spettacolarizzazione dello stupro.
«A cavallo fra gli anni ’60 e ’70 cambia radicalmente il modo di mostrare la violenza al cinema, ma almeno su questo punto possiamo dire che Kubrick è un epigono. I film che fanno schizzare ettolitri di sangue sullo schermo sono “Gangster Story” di Penn che è del ’67, poi “Il mucchio selvaggio” e “Cane di paglia” di Peckinpah. L’inizio degli anni ’70 segna anche l’arrivo dell’ispettore Callaghan, il primo film è del ’71, che sdogana l’idea di una violenza legittima delle istituzioni, in questo caso la polizia. Il salto di qualità di “Arancia meccanica” è il modo in cui ragiona sulla natura “divertente” e “liberatoria” della violenza, mettendo in scena un Es senza inconscio, un uomo paradossalmente libero nel momento in cui sfoga la propria libido e la propria aggressività, e poi ridotto a una larva quando lo Stato cancella tale aggressività. La riflessione è quindi etologica e al tempo stesso politica. Le polemiche furono infinite, ma non toccarono quasi mai la sostanza vera del problema: si limitarono al concetto di “imitazione” o di “emulazione”, che è profondamente stupido perché chi emula un’opera d’arte non fa altro che veicolare istinti già presenti. Questa, almeno, è la mia opinione».
Eyes Wide Shut è un capolavoro incompreso, un film incompleto o una delusione?
«È un capolavoro ancora in buona misura da comprendere. Non credo alla leggenda secondo la quale sarebbe un film “non finito”, ma su questo la certezza non ci sarà mai».
Se dobbiamo attribuirgli un attore feticcio, chi sceglie? Kirk Douglas, Jack Nicholson, Malcolm Mc Dowell, Peter Sellers…
«Con Sellers e Douglas ha fatto due film, ma Douglas in entrambi i casi era anche produttore e per “Spartacus” chiamò Kubrick a riprese già iniziate. Per il resto Kubrick ha sempre cambiato i protagonisti. Gli attori feticcio vanno cercati nei ruoli secondari: caratteristi come Leonard Rossiter, Philip Stone, Godfrey Quigley che compongono una sorta di “coro” di facce che ricorre da film a film. Ma forse il vero attore feticcio è Leon Vitali, che fa Bullingdon in “Barry Lyndon” e poi è diventato il suo primo assistente, il suo factotum di fiducia, la sua “longa manus” in un sacco di lavori dietro le quinte e che poi torna a fare il cerimoniere dell’orgia in “Eyes Wide Shut”».
Alienazione, disgregazione familiare, mancanza di empatia e violenza: oggi impazza il modello Alex de Large, il malefico protagonista di Arancia Meccanica?
«Mah, questa non la so. Rispetto a certa gente che gira oggi Alex de Large mi sembra un piccolo Lord».
Esiste un Kubrick “politico”? E, banalizzando, era di destra o di sinistra?
«Uno che osserva gli uomini come fossero cavie di laboratorio non è di destra né di sinistra. Non so cosa votasse. Non ce lo vedo a votare gente come Reagan o come Bush, ma non si sa mai. Ma “Stranamore”, “Arancia meccanica” e “Barry Lyndon” mostrano il potere al lavoro, lo deridono, lo smitizzano e sono profondamente politici».
C’era un rapporto tra Kubrick e l’Italia?
«Adorava Fellini, questo si sa. Era sempre ossessionato da quello che Fellini stava facendo. “Barry Lyndon” fu anche un modo di mettersi in gara con “Casanova”, riuscì ad uscire prima lui. Era pazzo di Piero Tosi, il grande costumista di Visconti, e lo voleva per “Barry Lyndon” ma Tosi non prendeva l’aereo e al suo posto mandò la sua pupilla Milena Canonero, anche lei italiana anche se lavora sempre all’estero, che peraltro -insieme ad altri- aveva già fatto “Arancia meccanica”. Sempre per “Arancia meccanica” chiamò Ennio Morricone, che ancora rimpiange di aver dovuto rifiutare. Anche se riesce difficile immaginare il film senza le musiche di Beethoven, Rossini e Purcell, originali o rifatte al moog da Walter Carlos: con Morricone sarebbe stato un altro film; pare che a Kubrick fosse molto piaciuta la colonna sonora di “Indagine”. Poi c’era Emilio, l’autista. E Riccardo Aragno, un altro dei suoi factotum che supervisionava i doppiaggi di tutti i suoi film. Seguiva da vicinissimo i doppiaggi: si fidava solo di Mario Maldesi, uno dei più grandi direttori di doppiaggio di sempre. Ho conosciuto bene Maldesi, dietro la scrivania aveva un telegramma incorniciato di Kubrick che diceva “Dear Mario, you turned post-syncronization in a work of art”. Era rimasto -giustamente- entusiasta del doppiaggio di Malcolm McDowell da parte di Adalberto Maria Merli in “Arancia meccanica” e del lavoro di Giancarlo Giannini, che fa O’Neal in “Barry Lyndon” e Nicholson in “Shining”. Quando bisognava doppiare il Joker in “Full Metal Jacket”, Maldesi mi raccontò che gli disse – sempre al telefono! – “we need a young Giannini”. Alla fine scelsero Mattia Sbragia. Si faceva mandare a Londra i provini di voce fatti da Maldesi a Roma e li ascoltava TUTTI, anche se non capiva cosa dicevano. Scelse lui personalmente la frase “Il mattino ha l’oro in bocca” per il dattiloscritto folle di Nicholson in “Shining”, dopo essersi fatto spiegare cosa significava. Altro non si sa. Non so nemmeno se abbia mai messo piede in Italia, ma credo di no».
Lei era già affermato critico nei decenni in cui i film di Kubrick uscivano in Italia, si ricorda i dibattiti e le reazioni derivanti dalle uscite delle sue pellicole? Qualche film ha destato più polemiche o scandalo di altri?
«Nulla è paragonabile al can-can mediatico intorno ad “Arancia meccanica”, ma tutti i film di Kubrick sono stati fraintesi dalla critica alla loro uscita. Però mi fai troppo vecchio: l’unico film suo che ho recensito è l’ultimo! Nell’87, quando uscì “Full Metal Jacket”, lavoravo già ma non era ancora il critico titolare».
Qualche partito politico o ambiente intellettuale italiano ha mai provato ad “arruolarlo”?
«Non che io sappia. Non avrebbe nemmeno risposto».
Oggi Lolita potrebbe uscire serenamente nelle sale o sarebbe accusato di misoginia o pedofilia per qualche equivoco post Me Too?
«Sono sinceramente convinto che un film come “Lolita” oggi sarebbe crocifisso. Di più: credo sia impensabile».
Che cosa ci dice del “Kubrick sepolto”? Si sa di un film mancato su Napoleone…
«I due grandi progetti “mancati” di Kubrick sono “Napoleon” e “The Aryan Papers”, su cui c’è molta documentazione. Il primo zompò per eccesso di costi dopo “2001”; il secondo fu accantonato dopo che Spielberg girò “Schindler’s List”. Doveva essere un film sull’Olocausto ispirato a un romanzo magnifico, “Wartime Lies” di Louis Begley: il tema, da ebreo, lo ossessionava. Si sa anche di un progetto di western elaborato con Marlon Brando, molti anni prima. E si sa che voleva fare “Profumo”, dal romanzo di Suskind. E poi naturalmente il racconto di Aldiss “Super Toys Last All Summer Long” che ebbe molti stadi di elaborazione, prima con Aldiss poi con altri scrittori, e che alla fine divenne “A.I.”».
Ma Spielberg ha fatto male a prendere un suo soggetto e fare Intelligenza Artificiale?
«No. E poi Kubrick gliel’aveva in qualche modo “passato”. Aveva grande stima di Spielberg».
Oggi secondo lei c’è qualcuno che gli somiglia?
«No».
Quale è l’eredità di Kubrick? La sua opera aveva un messaggio?
«Non vedo suoi eredi. Non era uno che spediva messaggi. La cosa impressionante dei suoi film è che non invecchiano. “Arancia meccanica” sembra girato ieri, anzi oggi, anzi domani».
Oggi su quale argomento o avvenimento farebbe un film secondo lei?
«Secondo me sarebbe molto intrigato dalle nuove tecnologie, dai social network, dalle identità sempre più multiple e liquide, dal web e, di nuovo, dalla realtà virtuale e dall’intelligenza artificiale. Penso che potrebbe fare un film come “Blade Runner” ma sull’oggi, e cento volte più profondo e intelligente. Potrebbe raccontare una storia di sesso fra un essere umano e un essere virtuale. Sicuramente sperimenterebbe con entusiasmo il digitale. Una cosa che pochissimi sanno è che i Beatles si rivolsero a lui, verso la fine degli anni ’60, perché volevano fare “Il signore degli anelli” in cui Paul avrebbe fatto Frodo, Ringo avrebbe fatto Sam, George Gandalf e John Gollum. Te l’immagini? Pare che ci fu un incontro e che Kubrick lasciò gentilmente cadere la cosa. Ecco, credo che trent’anni dopo avrebbe visto con grande curiosità “Il signore degli anelli” di Peter Jackson non tanto per la storia in sé, quanto per l’incredibile uso degli effetti speciali digitali. Non avrebbe fatto quella storia, ma sono sicuro che avrebbe fatto e farebbe dei film completamente digitali, senza attori, forse astratti. Forse avrebbe fatto il primo vero, grande capolavoro in realtà virtuale. Forse».