Era il 442 a. C. quando, per la prima volta, durante le Grandi Dionisie di Atene venne messa in scena l’Antigone di Sofocle. Eppure la tragedia della sventurata figlia di Edipo e Giocasta non è invecchiata di un giorno. Sapientemente rimessa in scena da Federico Tiezzi, trova sul palco del Teatro Argentina di Roma la sistemazione ideale. “Un nemico non lo si ama mai, nemmeno da morto!” grida Creonte alla giovane, rea di aver sepolto il cadavere di suo fratello Polinice. Colpevole per aver rispettato la legge divina e contravvenuto a quella del re.
Nella scena di apertura si raccoglie tutta la forza di un dramma senza pace. Seduta a un tavolo, la famiglia banchetta incurante del guerriero che giace ai loro piedi, coperto da un manto rosso. È Polinice e solo Antigone riesce a vederlo. L’amore sororale già la domina completamente, nei suoi occhi decisi (che sono quelli di Lucrezia Guidone) si legge già l’intenzione al sommo sacrificio.
L’attrice conserva quell’ardore disperato sino al suo ultimo momento, quando appare stretta allo scheletro del fratello come se abbracciasse il suo destino. Le ossa bianche e pulitissime sono le protagoniste silenti dello spettacolo di Tiezzi. Messi in posa, trascinati, adagiati sulla nuda terra, gli scheletri duettano con gli attori in una danza macabra che erge la morte a supremo giudice.
La scenografia di Gregorio Zurla è studiata con minuzia e con i suoi cambi lesti e imprevedibili riesce a sconvolgere anche lo spettatore più disilluso. Sapiente l’uso delle finestre, da cui di volta in volta si affacciano curiosi, saggi o morti infrangendo la quarta parete alla maniera sofoclea.
Nonostante la fama dell’opera, Tiezzi si dedica singolarmente ai ben noti personaggi, mantenendo un approccio originale. Costruisce quindi, per ognuno, una piccola tragedia che verrà vissuta in parallelo con la trama principale. Così Ismene (Federica Rosellini) vive un complesso di inferiorità verso la forza della sorella maggiore, Emone (Ivan Alovisio) soccombe alla sua debolezza di carattere figlia di un padre egemone, i cittadini tebani sono divisi tra ammirazione per il sovrano e terrore del tiranno. Creonte (Sandro Lombardi), infine, è un uomo consumato. Egli vive sulla scena l’infinita sete di potere e il terribile inganno del destino: quando sceglierà di punire Antigone per avergli disobbedito, firmerà anche la propria disfatta.
Antigone, paradigma immortale di donna che disobbedisce, mostra nello spettacolo un lato inconsueto. La forza recitativa della Guidone riesce a manifestare la paura che la fanciulla ha della morte. Ed è proprio qui che il mistero del dramma si svela: la ragazza che sceglie un sacrificio che la terrorizza in nome di un dovere più grande, che non affievolisce però la sua speranza di salvarsi.
Per scandire il tempo fino alla drammatica scena finale, i cori di Francesca Della Monica si innalzano potenti e meravigliosi. L’armonia dolorosa della lingua greca, unita ai movimenti sinuosi delle coreografie, trasforma la scena in un sogno ad occhi aperti. Regina dell’atmosfera onirica e personificazione inesorabile dell’avvenire, Tiresia è la gemma dell’Antigone di Tiezzi.
Impersonato da una meravigliosa Francesca Benedetti, l’indovino Tiresia fa il suo ingresso nella tragedia sdraiato su un tavolo operatorio e coperto dal velo dei morti. Quando il suo paggio lo scopre, egli si mostra surreale e prepotente. In una veste scintillante e infuocata, abbracciato ad uno scheletro in un duetto senza fine, punta il dito contro Creonte. “Orrore – grida – non c’è altro che orrore qua intorno!” e poi snocciola, vago, tutto quello che succederà.
Due ore che nulla hanno da invidiare ai fasti del teatro di Siracusa. Nella cornice di Largo Argentina, un’opera antica dal sapore attualissimo. Oltre la severità delle leggi Antigone diffonde un messaggio che, dopo secoli, ci chiede ancora un’unica cosa: restiamo umani.