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Il Pd alla resa dei conti
"No a M5s ma Renzi lasci"
Il 12 la direzione nazionale

I dem preparano il dopo elezioni

la minoranza punta su Zingaretti

di Simone Alliva07 Marzo 2018
07 Marzo 2018

L'ex presidente del consiglio Matteo Renzi durante l'assemblea nazionale del Pd all'Hotel Parco dei Principi, Roma, 19 febbraio 2017. ANSA/ANGELO CARCONI

Primarie e congresso, governo o opposizione. Le carte sono in tavola in vista della direzione del Partito Democratico di lunedì 12 marzo, tra problemi interni e soluzioni istituzionali, ma prima di tutto al centro della scena sarà il “processo” al segretario dimissionario Matteo Renzi. Il segretario del Pd ha già annunciato le dimissioni, dopo i risultati deludenti delle urne che vedono il partito sotto il 20 per cento, cifre che ricordano quelle di Achile Occhetto all’esordio del Pds e della Quercia sulle macerie del Partito comunista. Un flop oggettivo rispetto a quelle auspicate dal segretario alla vigilia del voto sotto la soglia del “25 per cento”. La strategia di Renzi con le dimissioni che diverranno effettive solo dopo le consultazioni per il governo è di condizionare le scelte che l’organizzazione farà nel prossimo passaggio istituzionale. Ipotecando quindi la linea politica anche quando non sarà più alla guida del Nazareno.

L’insofferenza dentro il partito però monta e tutti (escluso il Giglio Magico renziano) sono d’accordo: il segretario deve lasciare. Come ha fatto Walter Veltroni nel 2009, come ha fatto Pierluigi Bersani nel 2013, dopo passaggi elettorali difficili. Lo ha ricordato per primo il senatore Luigi Zanda, paziente capogruppo del Partito Democratico e vicinissimo a un altro eccellente esponente come Dario Franceschini: “Le dimissioni di un leader sono una cosa seria, o si danno o non si danno”, aveva scritto in una nota: “Le dimissioni si danno senza manovre”. Sulla stessa linea si sono posizionati il premier Paolo Gentiloni, i ministri Minniti e Finocchiaro. Più le aree di minoranza di Andrea Orlando e Michele Emiliano e pezzi di partito che finora erano con il segretario. Se dentro è guerra grande, fuori la linea politica è ferma: mai alleanze con il M5s. C’è il no di Zanda: “Prova ne sia ogni mia dichiarazione di questi anni contro il M5s”, spiega. Ma soprattutto c’è il no di Franceschini: “Mai pensato a un governo con il M5s o con la destra”, dice il ministro.

Solo Emiliano, Francesco Boccia e Sergio Chiamparino – per ora – aprono sul dialogo con il M5s.
La strategia di Renzi si sposta sulla gestione dei primi passi della legislatura. A cominciare dalla scelta dei capigruppo. Cruciale: perché sono loro che salgono al Colle per le consultazioni sul governo con il capo dello Stato. Insieme al leader del partito, se vuole.

Intanto renziani e anti-renziani posano lo sguardo sui gruppi dei nuovi eletti per capire quante truppe avrà il segretario che potrebbe trovarsi al suo ultimo giro di giostra. Tempo di riposizionamenti e strategie in vista del congresso dunque: tra i nomi in pista quello di Carlo Calenda neo-tesserato del Pd, ben accolto da esponenti come Matteo Richetti, Paolo Gentiloni, Piero Fassino. Anche lui contrario all’alleanza con i pentastellati.

Sempre più insistente risuona il nome di Nicola Zingaretti, sostenuto dalla minoranza orlandiana, appena rieletto governatore del Lazio, non intaccato dalla sconfitte che hanno travolto il Pd in questi anni. Lunedì la relazione introduttiva sarà affidata al vicesegretario, Maurizio Martina, probabile traghettatore del partito verso il congresso. Tra le incognite resta la presenza del segretario in via del Nazareno lunedì.

 

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