Upside down when you reach Cloud Nine. “È tutto sottosopra al settimo cielo” cantano i protagonisti del capolavoro teatrale della drammaturga inglese Caryl Churchill, scritto nel 1979 e mai così attuale. Ed effettivamente è proprio così: tutto alla rovescia. Rivoluzionario per la sfida ai paradigmi sociali e tagliente per il lucido sguardo sulla realtà, lo spettacolo – portato per la prima volta in scena in Italia al Teatro India di Roma grazie all’abile regia Giorgina Pi – scompiglia le idee con una ventata di novità e uno schiaffo alle convenzioni, posandosi sulla fragile e intrigante linea di confine fra tempo, spazio e identità di genere.
Razza, intimità e politica s’intrecciano prima in un’atmosfera coloniale ottocentesca e poi nell’orizzonte punk e queer di fine Novecento, attraverso un impianto narrativo tanto complesso quanto originale. Una famiglia, due cornici temporali, sette personaggi. Tutto semplice, non fosse che i maschi interpretano ruoli femminili (e viceversa) e la figura di uno schiavo nero è interpretata da un attore bianco. Confusi e disorientati in prima istanza, si arriva ben presto ad una sentenza positiva: la resa è avvincente proprio grazie al cosiddetto “cross casting”, voluto dalla stessa Churchill e riproposto nella versione italiana. Anche l’ellissi temporale è unica nel suo genere: il divario di un secolo fra i due atti si dissolve, nella mente della drammaturga, a soli venticinque anni di distanza.
Africa 1879 – Il fumo violaceo, due coppie di poltrone sul palco e un piano in proscenio ci trasportano dentro una vecchia residenza coloniale inglese, dove Clive, il capofamiglia, esegue gli ordini della madrepatria applicando i valori vittoriani di una supremazia bianca e una cultura omofoba. Intanto la moglie Betty (interpretata da un uomo) fa fatica ad accettare la sua condizione di subordinazione rispetto ai maschi mentre bada ai suoi figli: il giovane Edward (interpretato da una donna), che inizia a scoprire la propria omosessualità, e la neonata Vicky (una bambola).
Londra 1979 – Un parco di periferia, dove la promiscuità è regola. Qui, le poltrone diventano panchine piene di graffiti. Edward, ormai cresciuto, vorrebbe sposarsi con il dissoluto Gerry, e la sorella Vicky (adesso in carne e ossa), soffocata dal matrimonio con Martin, vive una relazione saffica extraconiugale con la femminista Lin. Stanca di una vita domestica, la loro madre Betty divorzia dal marito piombando in un vortice di solitudine. Ecco che il desiderio soppresso del primo atto diviene scontro sociale e denuncia politica nel secondo.
Nel gioco dei contrasti fra ruoli e pulsioni, il complesso puzzle della Churchill tenta di annullare i pudori omofobi, demolire le differenze razziali e i pregiudizi. Non a caso il fil rouge fra colonialismo e sessualità è proprio la libertà, rappresentata da una scenografia essenziale. Il vuoto fra gli oggetti diviene carica emozionale e l’utilizzo non convenzionale delle luci occasione di confronto fra i personaggi che non abbandonano mai la scena. L’amarezza di un primo momento diviene resistenza e mai resilienza, in un contesto in cui la fluidità di genere è essenzialmente il pretesto per criticare le gabbie sociali. La narrazione frammentaria, quasi surreale, è vivacizzata da una recitazione brillante che esula dai canoni accademici e si fa trasporto, emozione, empatia.
La lungimiranza di Cloud Nine – titolo originale dell’opera – sta proprio nell’avvertire le diversità della società contemporanea: il walzer delle minoranze di gay, femministe e stranieri diviene un tango aggressivo verso l’imposizione di verità in un contesto in cui – ora come allora – certi pregiudizi non sono sconfitti. La Brexit, le operazioni di pace nel continente africano, l’immigrazione incontrollata lo dimostrano. Per questo c’è ancora bisogno del grido dei protagonisti che, ieri Londra come oggi a Roma, ci rassicurino che tutto andrà bene. It will be fine if you reach Cloud Nine.