Isabella Pezzini è professoressa ordinaria di Filosofia-Teoria dei linguaggi e insegna Semiotica presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza Università di Roma. Sul tema “musei” è autrice di vari volumi, tra cui “Semiotica dei nuovi musei” (editori Laterza, 2011).
La crisi dei musei è cominciata più di dieci anni fa. Con l’allontanamento progressivo dei visitatori dalle strutture museali canoniche, le soluzioni adottate per un riavvicinamento vedono protagonisti i social e la tecnologia. L’offerta culturale propone sempre più “esperienze” e sempre meno opere. Qual è stata la causa scatenante secondo lei? Si tratta di un adeguamento alle richieste del pubblico?
In realtà le statistiche che sono state diffuse proprio in questi giorni parlano di una inversione di tendenza e di un grande aumento dei visitatori nei musei o nei luoghi di arte italiani, che sfiora addirittura il 50% rispetto all’anno scorso. Da molti anni è in corso una riflessione sul significato dei musei nella contemporaneità, che ha portato a diversi cambiamenti nella loro concezione, che deve essere più dinamica, più orientata alla diffusione della cultura piuttosto che alla sola conservazione. In questa prospettiva rientrano anche le forme cosiddette esperienziali per attrarre il pubblico – naturalmente possono o meno essere interessanti e di qualità.
“Un direttore di un museo non deve fare grandi mostre, ma far conoscere il patrimonio spirituale di una nazione. È la fine. L’arte ha perso ogni significato”. È un’affermazione provocatoria del critico d’arte Jean Clair, la trova condivisibile?
Jean Clair è un conservatore, il suo punto di vista è legato a una visione élitaria dell’arte e del modo di avvicinarsi ad essa, che trovo poco interessante.
A tal proposito, pensa che la legge Franceschini (autonomie per i musei e nuovi direttori via concorso pubblico) abbia aiutato questa “svalutazione dei contenuti”? Per esempio a Firenze, il direttore Schmidt ha proposto di affittare alcune sale del museo per i compleanni.
Non mi scandalizza che alcuni spazi dei musei possano in certe circostanze essere affittati per eventi, è un fenomeno non nuovo e anzi, molti musei di recente costruzione prevedono già nel progetto spazi di questo tipo. La sostenibilità economica di queste macchine complesse non è facile, è ovvio che tutto deve avvenire secondo regole precise e non in base a privilegi, o “privatizzando” i musei, fuori dagli orari di apertura al pubblico.
A Roma spopolano le “nuove mostre” e i musei interattivi. Come giudicherebbe la situazione culturale della città?
Roma è di per sé una città museo, ospita alcuni monumenti che sono unici al mondo. Penso sia giusto offrire a chi la visita una certa varietà nell’offerta culturale e cercare anche di sperimentare nuove forme di messa in valore. Ma certo bisogna poi giudicare caso per caso, vi sono iniziative migliori di altre.
Nel suo libro “Semiotica dei nuovi musei” lei guarda questa crisi da una prospettiva interessante. Potrebbe illustrarcela?
Il mio libro non parte da una analisi di crisi, piuttosto dalla constatazione di un rilancio contemporaneo della forma museale, a partire dall’architettura spettacolare, dall’esperienza spaziale, della relazione fra il museo e la città che lo ospita, in una prospettiva di sperimentazione e di ricerca. Analizzo sette casi molto diversi fra loro, ma tutti sotto il segno dell’eccellenza.