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Ma i videogiochi
sono davvero uno sport?
Parola agli esperti

Il neuropsicologo Facoetti dice sì

Il no con riserva per Pantano

di Valerio Cassetta30 Novembre 2017
30 Novembre 2017

Attendees play at Lego Worlds video game at the E3 (Electronic Entertainment Expo) in Los Angeles, California, USA, 14 June 2016. ANSA/MIKE NELSON

Ma che cosa accomuna il mondo dei videogiochi e quello dello sport? Andrea Facoetti è docente di Neuropsicologia dello sviluppo e riabilitazione all’Università degli Studi di Padova. Facoetti da tempo lavora sui ragazzi affetti da dislessia e discalculia attraverso tecniche innovative che prevedono l’utilizzo dei first person shooter, gli “sparatutto” da console.

«I videogiochi possono aiutare moltissimo lo sviluppo delle attività cognitive. Abbiamo verificato un netto miglioramento della percezione dello spazio e dell’attenzione in quasi tutti i soggetti», dichiara il docente. «Nei ragazzi dislessici, la reattività della modalità arcade aiuta la velocità di lettura e la memoria, perché le scritte hanno un tempo limitato».

Secondo il professore, l’intensità dei videogiochi è paragonabile a quella di uno sport.  «A livello fisico ovviamente no, ma mentale certamente. Per migliorare davanti a una realtà virtuale, ci vogliono tempo e applicazione». Quando gli chiediamo come risponde a quanti dicono che i videogiochi non possono essere una disciplina olimpica perché manca la componente di fatica, Facoetti è categorico. «Non è vero. Di fatica a livello mentale ce n’è eccome. Lo sport non è solo muscolo ma anche coordinamento celebrale. In alcune discipline olimpiche, come il tiro con l’arco, il tiro a volo o il piattello, la componente fisica è limitata, per la maggior parte è mentale. Nei videogiochi funziona allo stesso modo».

Pochi dubbi anche sull’allenamento. «È fondamentale, come in qualsiasi altra attività. Solo è un allenamento diverso, magari non te ne accorgi subito. Ma i risultati che abbiamo avuto con i videogiochi a livello di neuro-plasticità sono sorprendenti».   

«Faccio parte di una generazione datata, che vive ancora lo sport dal punto di vista della prestazione fisica – dice da parte sua Stefano Pantano, stella della scherma italiana, tre volte campione del mondo a squadre di spada tra gli anni ’80 e ’90, e olimpionico ai Giochi di Seul (1988) e Barcellona (1992) -. Capisco però che si vada avanti e ci siano nuovi interessi, e le generazioni cambiano».

Quello di Pantano è un no con riserva. «Se una sfida ai videogame diventa spettacolo e se richiama pubblico, va rispettata – commenta -. In ogni caso è necessaria una preparazione e una concentrazione, che possono rientrare nella sfera della competizione. L’apertura del Cio mi ha sorpreso. Preferisco la preparazione fisica e mentale, venendo dal combattimento. Anni fa si parlava del bridge, oggi dei videogiochi». Secondo lo schermidore il rischio che lo sport venga accostato a un qualcosa di virtuale c’è. «Viviamo in un momento di evoluzione. Ho sempre preferito l’attività fisica piuttosto che stare seduto ad un tavolo. Il rischio è che lo sport venga vissuto in seconda battuta, come due pugili che invece di combattere si sfidano al joystick, ma se una partita virtuale può riempire un palazzetto, bisogna averne rispetto».

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