Dopo la firma del premier britannico Theresa May della lettera che formalizza ufficialmente l’inizio delle trattative per l’uscita del paese dall’Unione Europea, si iniziano a prevedere tutti i possibili scenari economici che la Brexit porterà con sé. I negoziati tra Londra e Bruxelles dureranno almeno due anni, quindi per molti economisti è presto per sbilanciarsi, ma l’iter di divorzio genera comunque una serie di incertezze che potrebbero nuocere al paese di Sua Maestà.
Come riporta il Sole 24 Ore, dallo scorso 23 giugno – da quando cioè l’esito referendario ha determinato l’uscita dall’Ue – la sterlina ha avuto una svalutazione del 16% rispetto al dollaro, passando da 1,49 a 1,24. In generale sono pochi gli economisti e gli esperti che prevedono un miglioramento dell’economia britannica, soprattutto perché molti stimano una sostanziale difficoltà data dal mancato accesso al mercato unico europeo e dalla minore capacità di attrarre capitali e investimenti stranieri. In media le analisi economiche prevedono un Pil britannico più basso di circa il 3-4% di quanto sarebbe stato se il Paese fosse rimasto in Europa.
Non solo la crescita del Pil ma anche le prospettive dell’aumento – o la perdita – di molti posti di lavoro sono al vaglio degli analisti, ma tutto dipende dagli accordi che il Regno Unito saprà trovare con l’Unione Europea. Sicuramente il rischio più grande lo corre la City di Londra, attualmente il più grande polo finanziario d’Europa, che però potrebbe perdere questo primato a causa delle molte aziende che sembrano intenzionate a traslocare, per non essere svantaggiate dall’uscita dal mercato unico. Come riportato da Bloomberg.com, Xavier Rolet, amministratore delegato della London Stock Exchange, parlando davanti al Tesoro ha affermato che se il Regno Unito non saprà gestire adeguatamente i negoziati, nel solo mondo della finanza si potranno perdere ben 232mila posti di lavoro. Analisi meno catastrofiste prevedono invece una perdita di 30mila posti, soprattutto per le grandi banche che sarebbero intenzionate a spostare i loro uffici nelle altre città europee, in particolare Francoforte, Parigi, Dublino e Amsterdam.
E per quanto riguarda gli investimenti dagli altri paesi europei, proprio ieri il ministro dell’economia Padoan, insieme al ministro degli esteri Alfano, a Sala e a Maroni, ha parlato nella prestigiosa sede di Bloomberg nel cuore della City di Londra, per rassicurare le aziende sulla stabilità italiana, poiché nei prossimi due anni di negoziati è previsto un vero e proprio esodo dalla City verso l’Europa. «La Brexit – ha affermato Padoan – genera costi e opportunità, cambierà in modo forte il panorama europeo. Noi siamo qui per spiegare che l’Italia e Milano potranno essere un’opportunità per l’Europa e il Regno Unito. Stiamo introducendo – ha proseguito davanti ad una vasta platea di investitori stranieri – un maggior taglio di tasse per le imprese e benefici fiscali per chi vuole tornare in Italia». In questa strategia di incentivare investitori – e in generale imprenditori e uomini facoltosi – a venire nel nostro Paese, si innesta la “flat tax”, cioè quella norma che il governo Gentiloni vorrebbe adottare per favorire gli stranieri con un alto reddito attraverso una tassazione forfettaria, per raccogliere quindi una parte di quel deflusso finanziario che sarà sicuramente provocato dalla Brexit.